PAOLO ROSSI, L’APOTEOSI DELL’ATTIMO FUGGENTE – DOTTO: “DA CENTRAVANTI MOLTO ATIPICO “PAOLINO” ANTICIPAVA TUTTO, L’ATTIMO, IL PENSIERO, L’AVVERSARIO. NON AVEVA IL FISICO DI CRISTIANO RONALDO. DOVEVA PREVALERE CON LA TESTA. QUASI TUTTI I SUOI GOL ERANO LE IMPRESE DI UNA VOLPE. ERA L’OPPOSTO DI MARADONA, ECCESSO ALLO STATO PURO. LUI ERA MINIMALISMO TOTALE. MA UN TRATTO LUCIFERINO CE L’AVEVA ANCHE LUI" - VIDEO
-Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Senza tregua. Rieccola, la smorfia dello stupore, la traccia del dolore. A seguire, immancabile, ripartirà l’apparato del lutto di massa che non ha ancora smesso l’icona di Diego e già deve lucidare quella di Pablito. Come sempre non sapremo cogliere l’attimo, interrompere quando è il momento, quando l’emozione sbiadisce nell’esibizione e poi nella ripetizione, quando il sacro diventa simulacro. L’inerzia del gesto. L’immutabilità del gregge. Pablito, lui sì, avrebbe saputo cogliere l’attimo. Accendere quando serve e spegnere quando si deve. Lui era il re dell’attimo. Il suo calcio era l’apoteosi dell’attimo fuggente.
Paolo Rossi era l’opposto di Diego Armando Maradona. Difficile immaginare due più diversi. Poche cose in comune, l’aver vinto un mondiale, i palloni d’oro nei loro continenti, l’essere star planetarie, ancora di più, l’incarnare la sinossi esemplare, scritta da zampa caprina, di come la vita possa dare e togliere allo stesso uomo e alla stessa storia. La celebrità, lo scandalo, poi ancora la gloria, una vita da invidiare e una morte da compatire. Crudelmente precoce.
Avevano in comune anche le ginocchia a pezzi, non riuscivano quasi più nemmeno a camminare. Ventenne, Paolo non ancora Pablito, e già la fama del talento fatto di vetro. Inaffidabile. Tre menischi in tre anni, una specie di record planetario, quando i menischi erano un guaio serio. Uno dei motivi per cui smise il pallone a trent’anni, l’età in cui oggi, a uno come Ibra, per dire, gli avrebbero strizzato i pannolini.
I due erano una versione estrema dello zolfo e dell’acqua santa. Diego fornicava da sempre con le lusinghe di Satana dentro un cuore unico, sempre stato gigantesco nelle passioni prima ancora che nelle dimensioni. Diego si è assunto fino in fondo la croce sublime dell’essere Diego. Senza calcoli o riserve.
L’ebbrezza e il calvario della dismisura. Diego era eccesso allo stato puro. Paolo Rossi, da oggi più che mai Paolino, meno che mai Pablito, era minimalismo totale. Tanto più stupefacente se contrapposto al boato di trofei, medaglie e titoli sparsi. Un uomo amabile e carezzevole, che non ha mai creduto fino in fondo alla balla mitologico dell’essere “Paolo Rossi”, “il fidanzato d’Italia” e via straparlando. Anche quando ci ha creduto, sempre per un attimo, non ha mai saputo né voluto esserne all’altezza. Che, in questo caso, significava anche spocchia, vanagloria, esibizione.
Pablito era, è, uno degli italiani più famosi al mondo. L’abbiamo saputo con certezza il giorno in cui Mick Jagger in concerto, a Torino nell’82, si presentò sul palco con la sua maglia azzurra numero 20, vaticinando, da strega qual era: “Vincerete la finale 3 a 1”. Infinite conferme.
Due anni dopo il mondiale, capito a Tokyo e non credo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostra umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. O lo stesso Rossi che mi racconta di quando un tassista di Rio lo riconosce all’aeroporto e lo fa scendere dalla macchina per punirlo dello strazio che gli aveva inflitto.
Mille altre di queste storie, quanto basta e avanza per avvertirsi un semidio, ma lui nisba, niente da fare. Nulla che potesse scalfire l’atrofia impermeabile del suo ego.
L’anima dimessa era il suo limite ma anche la sua forza. Lo ha sempre tenuto al riparo dalle grandi ustioni, ma non dalla crudeltà, della vita. Paolino è rimasto davvero fino in fondo quello dei primi gracili dribbling dell’oratorio.
Destinato a un avvenire da onesto ragioniere o da sacerdote ispirato, si è ritrovato in cima al mondo, senza nemmeno soffrire di vertigine, perché la vertigine è un lusso dell’immaginazione. La foto che più racconta Paolo Rossi non era la sua: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a vedere il loro ragazzo con la maglia della Juventus, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto.
L’unica vicenda infernale fu quella del calcio scommesse ma, anche lì, ci finì dentro più per inerzia che altro, per un difetto di coinvolgimento che il contrario, per quella sua attitudine ad assecondare chi desidera più forte di lui.
Anche nelle conseguenze del fattaccio non si smentì. Due anni di squalifica, senza meritarli. Due anni di vita. Chiunque altro avrebbe dato quanto meno un’occhiata alla canna del gas o si sarebbe sfondato di benzodiazepine. Lui niente.
Depressione? Nemmeno a parlarne. Accettazione placida del destino. “Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi hanno tolto due anni di vita, ma sono stato ripagato con gli interessi”.
Un tratto luciferino ce l’aveva anche lui, Paolino. Rubava l’attimo. Con lucidità e destrezza. Il passo del tempo rubato nel jazz. Un talento innato. Da centravanti molto atipico anticipava tutto, l’attimo, il pensiero, l’avversario. Non aveva il fisico di Cristiano Ronaldo. Doveva prevalere con la testa, in difetto di quadricipiti e testosterone. Quasi tutti i suoi gol erano le imprese di una volpe. Chiedere a Falcao e compagni. Quella volpe ancora popola i loro incubi.
In quel ritiro della Galizia, nell’82, arrivò la pallida controfigura di Paolino Rossi, palpeggiando il proprio teschio tra bordate moralistiche e improperi. Lo scarto umano riemerso da due anni di cancellazione. Se non nella psiche, annichilito nel fisico. Ferocemente voluto da Bearzot con una testardaggine eroica e apparentemente suicida. Fu così che, tra tutti i soldatini di piombo, fu quello claudicante, senza una gamba e dall’anima ferita, che diventò l’eroe principale della favola.
Grazie specialmente alle amorevoli attenzioni di papà Enzo. Come ricorda Francesco de Core nel suo volume sui mondiali dell’82, Dalla polvere alla gloria, Gallego, il difensore dell’Argentina, s’era lasciato crescere apposta le unghie per graffiarlo in partita. Ma non servì. Le unghie di Gallego erano un’inezia al confronto di quelle che aveva sopportato per due anni da una nazione intera.
A 64 anni, avendo ceduto al desiderio dell’amatissima moglie Federica (una giornalista, lui che i giornalisti li scansava, prima per timidezza, poi per diffidenza) di scrivere finalmente la sua autobiografia (fosse stato per lui…), l’eterno ragazzo non aveva nulla di più da chiedere alla vita.
Si guardava intorno e trovava tutto quello che amava. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena. Più lontano ma comunque vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale.
Si prestava da opinionista in tivù ma, anche qui, senza molta convinzione. Il calcio lo guardava solo per dovere, per lo più lo annoiava (faceva un’eccezione per il suo Vicenza a cui si era ravvicinato negli ultimi tempi),
lontano anni luce dai compulsivi maniaci dei giorni nostri.
Il resto del tempo tra il suo agriturismo nel Valdarno, l’attività vinicola condivisa con il figlio, la scuola calcio e la mostra itinerante con tutti i suoi cimeli, anche questa all’inizio più subita che voluta. L’idea di studiare da allenatore non lo ha mai sfiorato.
Non si sentiva caratterialmente portato. Capiva che fare l’allenatore oggi è un mestiere spietato, troppo per lui. Gestire più di venti professionisti, spesso capricciosi, e tutto l’andazzo che li circonda. Bisogna essere molto duri dentro e fuori. Troppo stress. Troppe ulcere. Non era cosa per lui. “Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”, mi diceva.
Paolino, padre affettuoso, ha avuto un padre naturale e tre padri putativi, l’allenatore Fabbri, il presidente Farina, Enzo Bearzot su tutti. L’uomo che lo guardava negli occhi. La prima volta: “Ti porto in Spagna con me, ma devi giurarmi sul tuo onore che non c’entri nulla con quella storia schifosa…”.
Quattro anni dopo: “Ti porto in Messico con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”. Paolino si sentiva protetto dalla sua lealtà. Ora se n’è andato. Ha raggiunto quasi tutti i suoi padri, portandosi dietro la sua natura placida e pochi dubbi che non lo hanno mai tormentato più di tanto. Uno di questi, se ci sia una vita dopo la morte. “Diamoci una speranza - mi disse l’ultima volta che ci siamo parlati - altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo?”.
La certezza è che di Paolino resteranno, su questa terra, i ricordi di chi gli ha voluto bene, dei tanti che quella notte di luglio si sono buttati vestiti e felici nelle fontane di tutta Italia, e il suo cordone ombelicale ancora seppellito nel giardino della casa materna. Così usavano fare le famiglie di un tempo.