Estratto dell'articolo di Nicoletta Martelletto per il Giornale di Vicenza
Ha inaugurato una nuova mostra, "Bilico", a Ginevra alla galleria Gowen contemporary e analogamente ha aperto con le sue opere la nuova Raize gallery a Venezia. La sua arte è eclettica e spietata. Prende forma in missili da giardino, fucili militari decorati come accessori di lusso da sfilata, zerbini antinucleari, bocce di vetro che contengono le reliquie della sua raccolta di bibliofilo.
Nel 1996 realizza il videogame “Italiani Brava Gente”, in cui stigmatizza il razzismo contro i migranti albanesi. I suoi lavori sono in permanenza al Mart di Rovereto, all’Elgiz Museum di Istanbul, alla Bibliotèque Nationale di Parigi, al Mudac di Losanna, al Baltic di Newcastle, alla Kunsthalle di Vienna. Antonio Riello, classe 1958, ha estimatori dovunque.
Facciamo un veloce riassunto biografico.
Nato sotto il segno del Leone a Marostica, ho studiato al liceo scientifico a Bassano, di cui mi porto una impronta scientifica condita di latino. Poi università a Padova, laurea in Chimica e tecnologia farmaceutica, semplicemente perché mio padre era farmacista. Ho finito bene e in fretta, volevo liberarmi di questo pensiero. Ho lavorato un po’ in farmacia, mi guardavo intorno e sono volato negli Usa dove l’arte era un gioco spontaneo. Nel 1993 ho avuto una borsa di studio dalla Fondazione Pollock-Krasner.
Qualcosa da ragazzo era stato decisivo?
Leggere un diario di viaggio di Paul Klee in Tunisia. Mi catturò tutto: luci, colori, racconto. Dovevo incontrare qualcosa, è stato un libro. Mi sono detto: «Da grande mi piacerebbe essere come lui». Avevo circa 18 anni. Era deciso, volevo fare l’artista.
Quando ha maturato uno stile, ammesso che se lo riconosca?
Nel senso visibile e tradizionale potrei dire sì e anche no. Un palato sofisticato che conosce il mio lavoro lo identifica anche in espressioni diverse, ma non è detto che accada. Dal punto di vista formale sono uno che si annoia facilmente e voglio provare tecniche, materiali, situazioni diverse. Mi sono misurato con vetro, ceramica, pittura, disegno: inseguo l’idea, dando un guscio fisico a qualcosa che la racchiude. Sono un domatore di idee selvatiche, le addomestico.
(...)
La prima mostra a quando risale?
Una piccola cosa casalinga, a Bassano nel 1991. Al tempo avevo fatto acrilici con paesaggi urbani sui generis, ma subito dopo iniziai a tormentare gli oggetti. Le reliquie fattoidi, ad esempio: falsi fatti così bene da poter essere scambiati con quelle vere. Il percorso è proseguito a Milano, una mostra al Museo di storia naturale, poi Washington, Firenze, sempre dentro i musei che per me sono luoghi speciali dove d’intesa con i direttori mescolavo i reperti falsi a quelli autentici. La garanzia della verità era data dal tempio museale, io ero un disturbatore.
È vero che sceglieva lei i luoghi dove proporsi?
Metà e metà, a volte mi chiamavano, a volte ero io a puntare su un museo con un progetto preciso. A Bassano nel 2018 ho mescolato Canova con opere mie, alla Biennale in Turchia ho fatto una mostra in un supermercato tra i carrelli, abbastanza divertente.
Un’altra volta sono stato fermato dalla polizia a Colonia, tornando dalla fiera, perché avevo dei kalashnikov nel bagagliaio: mi hanno messo le manette, non parlavano inglese. Pensavano fossi un terrorista, li ho scongiurati di guardare il catalogo della fiera con le mie “armi”: ero famoso e si sono scusati. Abbiamo chiuso con la foto tutti insieme per il giornale della polizia. Restando agli aneddoti, a Basilea invece... Andavo dalla Svizzera alla Francia, con i miei lavori in auto. Alla dogana vengo bloccato: ero pieno di scatolette di carne per un lavoro sull’antropofagia.
Sull’etichetta speciale era scritto che era carne umana, ovviamente strabuzzano gli occhi, spiego che sono un artista ma non mi credono. Vogliono aprire le scatolette, dico che così mi rovinano l’opera, non c’è verso: aprono e dentro ci sono fagiolini lessati, chiamiamo il mio gallerista e li rassicura. Hanno voluto tenere una scatoletta per ricordo e ho dovuto rifarne alcune.
L’arte è un mestiere, una passione, una emozione?
Credo sia in misura continuamente variabile un mix di tutte e tre la cose. Mestiere per ciò che riguarda le tecniche e l'esperienza: a volte perfino le necessità della committenza possono essere uno stimolo. È passione perché porta a sperimentare e reinventarsi. È emozione: bisogna saper condividere, artisticamente, le proprie emozioni.
Countryside Riello – antonio Riello
La vita errante tra Veneto e a Londra, influisce su quello che lei crea, su come lo pensa?
Il Veneto è pieno di qualità umane e di concrete opportunità ma purtroppo manca di una grande città. Venezia è un caso a parte. Il mio bilancio non è tra Italia e Regno Unito ma tra una magnifica campagna-collina densamente urbanizzata con le sue tradizioni, e una realtà metropolitana complicata come Londra, che però funziona da acceleratore sociale e culturale. Ho messo assieme queste due dimensioni che, più o meno scomodamente, convivono. In fondo Inglesi e Veneti hanno diverse cose in comune: uno scetticismo di fondo che riguarda quasi tutto, accompagnato da una certa allergia per l'autoritarismo, insomma niente fanatismi; e un discreto rispetto per le istituzioni e direi anche una bizzarra vocazione per l'eccentricità.
Frequenta gli artisti?
Sì, inaugurazioni, cene. Spesso vedo Langlands & Bell, Ergin Cavasouglu e David Rickard. Un paio di volte con l’americano Jeff Koons, per amicizie comuni. Ogni tanto incontro il violoncellista trevigiano Mario Brunello quando suona a Londra, è più facile che ci vediamo lì che in Veneto.
Come si legge l’arte contemporanea in questa altalena di metropoli e collina di provincia?
Negli anni Ottanta c’era una sensibile differenza tra grande città e le nostre zone sul fronte dell’arte: oggi non la si avverte più, perché si viaggia molto, c’è internet, si moltiplicano le occasioni e il gap non esiste. Le cose succedono ovunque. Forse in Veneto non sappiamo raccontare bene le tante cose che accadono, c’è forse un problema irrisolto.
ANTONIO RIELLO TO BE OR NOT TO BE
La collaborazione con il sito Dagospia?
È iniziata per caso nel 2012. Roberto d'Agostino, che conosco da decenni, mi dice: «Scrivimi qualcosa». E io: «Ma non so scrivere bene». La sua risposta: «Provaci». Da allora scrivo di arte & affini per Dagospia. La cosa interessante è l’eclettismo interclassista di chi legge. E' come i bar delle stazioni di servizio delle autostrade: si fermano tutti, proprio tutti (anche i detrattori). Per questo motivo quando si scrive di "fenomeni estetici" bisogna evitare il lessico un po' contorto dei critici d'Arte ed essere estremamente semplici e concisi. Senza ovviamente rinunciare alla "sostanza" e alla sincerità.
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