Il 23 febbraio il Museo Maxxi di Roma dedica una giornata a Francesca Alinovi, per raccontare una delle protagoniste del clima di sperimentazione artistica degli anni 80.
Nella videogallery del museo verrà inoltre proiettato un video documentario su di lei, dal titolo ‘’I’m not alone away’’, scritto e diretto da Veronica Santi.
intervista a Marcello Jori di Massimo Giacon per Dagospia.
Negli anni ’80 frequentavo con una certa assiduità gli ambienti bolognesi legati alla musica, al fumetto e al Dams.
Ero molto giovane, ma riuscivo a capire che dopo il Movimento del ‘77 quella città stava producendo qualcosa di nuovo, che proveniva da quella stagione, ma che si stava trasformando in qualcosa di indefinito e interessante. Quella città apparentemente sonnacchiosa era diventata in pochi anni un laboratorio politico, creativo e culturale.
Dentro quella cupola svettava la personalità di Francesca Alinovi, che in pochissimi anni diventò una figura di riferimento per l’arte contemporanea, portando per la prima volta autori di fumetti nelle gallerie, e facendo conoscere in Italia gli artisti della scena dei graffiti di New York.
Viene assassinata troppo giovane e troppo presto. Non ho fatto tempo a conoscerla, se non attraverso due mostre fondamentali curate da lei: quella che comprendeva anche Andrea Pazienza alla Galleria di Arte Moderna a Bologna, e quella sui graffitisti, in collaborazione con la galleria Holly Solomon di New York.
Ricordo di averla vista ad alcune inaugurazioni. Avevo quasi paura ad avvicinarmi, e così ho fatto conoscenza con la punta dei suoi capelli, da lontano, peccato che oggi ci si ricordi soprattutto dell’omicidio, complice anche un fortunato episodio della trasmissione televisiva Blu Notte di Carlo Lucarelli, ma nei media non si sottolinea mai abbastanza quanto fosse brillante, anticipatrice, acuta.
Ne parlo con chi la conosceva bene, e che l’ha frequentata fino alla fine, Marcello Jori: artista, autore di fumetti, designer, scrittore.
Come vi siete conosciuti?
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Io ho conosciuto Francesca alla fine degli anni ‘70. Si era laureata con Renato Barilli, che aveva appena curato la mia prima mostra personale e in quel periodo era decisamente la sua collaboratrice prediletta. All’inizio il nostro era un rapporto fra due giovani promesse, un giovane artista e una giovane curatrice, poi nel tempo è cresciuta un’amicizia di lavoro e poi una collaborazione appassionata che ha portato a mostre e a un suo testo, per quanto mi riguarda, commovente. Abbiamo condiviso molte esperienze indimenticabili. Una per tutte, forse la più emozionante, la mostra che agli inizi degli anni 80 curò da Holly Solomon, una delle galleriste in quel momento più importanti di New York. C’era anche Salvo e Ontani… Fu bellissimo esserci.
Quello che mi interessava capire è quanto Francesca Alinovi sia stata una delle prime ricercatrici ad interessarsi a qualcosa che all’epoca veniva percepito come un percorso parallelo e laterale dell’arte ufficiale, come un certo tipo di musica, o i fumetti.
Francesca non distingueva fra cultura bassa e cultura bassa, nè fra arte di serie A e di serie B…per lei esisteva solo l’arte vera o la “non arte”. Era una delle pochissime, se non la sola prima critica d’arte militante che si potesse definire internazionale (all’epoca non si chiamavano nemmeno curatori, il termine proprio non esisteva).
Nessuna donna della sua età poteva vantare un rapporto di scambio così felice con l’America. Allora, per un’italiana era una qualità rarissima. Esistevano solo Celant con l’Arte Povera e Achille Bonito Oliva che in quel momento stava imponendo la Transavanguardia in Europa e in America.
In questo contesto si era inserito Barilli, che tra i suoi molti meriti aveva quello di aver portato a Bologna una importantissima rassegna intitolata: “La Settimana della Performance” , con artisti provenienti da tutto il mondo, dall’Abramovich con Ulai, alla prima Laurie Anderson (molto prima dei riconoscimenti musicali “pop”), ed è lì che Francesca conobbe Demetrio Stratos , che ormai non cantava più con gli Area, e rappresentava la Voce, con quella voce possente, unica al mondo, che lui sforzava talmente tanto da morirci: morì di leucemia fulminante all’improvviso. pare dovuta ai farmaci o chissà cos’altro che prendeva per calmare l’irritazione della gola, stressata oltre l’umana possibilità.
Era scoppiato un amore travolgente fra loro due, cosa che penso sappiano in pochi. Una bellissima storia d’amore, il classico colpo di fulmine. Lei si era innamorata perdutamente, avevano deciso di andare a vivere insieme. Francesca aveva preparato le valigie per andare a convivere quando arrivò la telefonata di Demetrio che diceva di un problema momentaneo… “mi tengono in ospedale qualche giorno”…
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Non l’ha più sentito. Non è mai tornato, era morto senza riuscire a salutarla. Per lei fu una tragedia terribile, uno dei grandi dolori della sua vita. Andammo in vacanza insieme ma fu impossibile consolarla… Per tanto tempo ha portato i fiori sulla sua tomba. Questi momenti tragici si fondevano con la sua attività di militante delle emozioni. Lei non sapeva separare la vita dal lavoro.
Ha sempre avuto rapporti molto intensi con gli artisti, scambi di vita, viaggi condivisi con chi l’arte la creava... In questo senso lei inaugurò una figura di curatore che ancora non c’era. Ebbe la fortuna di essere molto apprezzata da Holly Salomon, che a detta stessa di Leo Castelli era una delle gallerie “simbolo” della New York di quegli anni. Mi ricordo dell’entusiasmo con cui portò in Italia graffitisti come Rammelzee, Sharf, Haring, Futura 2000. La amavano moltissimo.
Questa sua trasversalità, la sua curiosità come veniva vista dal mondo ufficiale della critica, all’epoca?
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Il suo era un modo di lavorare assolutamente nuovo. In questo io e lei ci siamo ritrovati. Io avevo cominciato nell’arte cosiddetta di serie A esponendo in gallerie e musei e all’improvviso mi sono imbattuto nel fumetto. Ho incontrato Andrea Pazienza e con cui era esplosa una amicizia inarrestabile. E poi tutto il gruppo Valvoline. Provavo un’attrazione irresistibile per quell’arte diversa che all’inizio degli anni 80 attirava talenti formidabili, grandi artisti che avevano scelto il fumetto come mezzo di espressione.
Lì trovavo un’energia capace di reggere il confronto con i più grandi visionari del mondo. Non riuscendo a rinunciare a nessuna delle due cose, passavo dalla frequentazione di artisti come Ontani e Nitsch, Paolini e Salvo, a quella di Pazienza, Igort, Mattotti. Anche per Francesca questo vagare per le arti stupidamente ancora chiamate alte e basse era diventato irresistibile.
Si interessava di musica, arte e fumetto, e quando è stato il momento di fare una grande mostra alla GAM di Bologna ha scelto di portare artisti e fumettisti insieme, credo per la prima volta. Lei condivideva con me la consapevolezza che l’arte importante in quel momento si stava facendo su riviste come Frigidaire in Italia e altre in Francia e America… Anche nel design e nella moda.
Io mi ricordo proprio un suo articolo sui nuovi graffitisti americani proprio su Frigidaire. Ed era stata una cosa abbastanza singolare perché non era su una rivista come Flash Art, per esempio.
Si ma ci andavano in molti su quel giornale lucente di nuovo talento e di nuova vita sconosciuta. Dentro a Frigidaire c’era anche stato Achille Bonito Oliva che si era spogliato nudo per la rivista. Il problema di Francesca era che non aveva il senso del pericolo. Aveva l’incoscienza e il coraggio di andare al cinema da sola e di sera nel Bronx. Mi ricordo ancora il racconto che mi fece a voce alta in un ristorante di un nero che l’aveva aggredita durante una proiezione…
Secondo te che cosa è rimasto del suo lavoro nel mondo della critica d’arte?
Ha sicuramente influenzato diversi giovani curatori, senza fare nomi, che si sono completamente ispirati a lei. Stava diventando un’icona quando è stata fermata.
Se Francesca Alinovi oggi fosse viva (cosa che ci saremmo auspicati, dato che è stata davvero una grave perdita per a cultura italiana), come la vedresti? Cosa farebbe? Sarebbe un personaggio mediatico e televisivo?
Sarebbe sempre stata più avanti agli altri. La sua irrequietezza cronica la portava sempre ad andare a caccia del nuovo che stava nascendo da qualche parte nel mondo.
E per lei il mondo era anche l’Italia, era anche casa sua dove il suo viaggiare è arrivato al capolinea.
Fra tutti gli artisti che ha frequentato non posso dimenticarmi il più raffinato. Un amore felice finito ancora una volta dolorosamente in India. L’artista era Richard Tuttle, una specie di Fausto Melotti americano, che lavora sulla fragilità dei materiali, un artista così diverso da tutti e poetico…. Lei passava dall’aggressività dei graffitisti alle delicatezze di Tuttle senza scomporsi, aperta a tutti i sapori di un catalogo infinito.
Oggi sarebbe un po’ più in là del presente e appena prima del futuro a cercare quello che inseguiva da sempre: la scossa emotiva del ricercatore che scopre l’arte nascente. Si annoiava velocemente, si stancava molto presto delle persone che si ripetevano. Evitava i lavori troppo espliciti, non amava arrivare dove tutto il mistero di un’opera era già stato rivelato.
Francesca non ha fatto in tempo a partecipare ai fasti della così detta Arte Muscolare. Non so dirti se avrebbe amato Cattelan e compagni. Non ha fatto in tempo a scoprirli e forse li avrebbe costeggiati senza attraccare. Si trattava di artisti che preferivano scoprirsi da soli destinati a usare i curatori più che a farsi guidare.
Francesca, senza filtri e ipocrisie e a costo della vita, dimostra che gli anni 80 non erano poi quella gran festa della gioia e della creatività che per alcuni è diventata leggenda. In parte lo erano, ma erano anche una festa della morte. Andrea Pazienza morì di overdose, Pier Vittorio Tondelli fu uno dei primi morti di HIV. Francesca morì per amore imprudente. Queste tre morti avevano spento le luci della festa. Ma la leggenda era cominciata.
Il territorio dell’arte è quello spazio dove non vale il detto: “Ciascuno è sostituibile!” Sostituendo qualcuno come Francesca, sostituisci il destino del tempo.
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