“L’ITALIA CON LA LIRA SAREBBE STATO UN CONCORRENTE FORMIDABILE” – L’EX NUMERO UNO DI BANKITALIA ANTONIO FAZIO: “SAREBBE STATO PIÙ SAGGIO RIMANDARE L’INGRESSO DELL’ITALIA NELL’EURO, MA UN UOMO DELLE ISTITUZIONI RISPETTA LA VOLONTÀ POLITICA, UNA VOLTA PRESA LA DECISIONE. MI SAREI POTUTO DIMETTERE, E CI HO PENSATO. MA A COSA SAREBBE SERVITO? LA SPECULAZIONE SI SAREBBE ABBATTUTA SUL PAESE. E ALLA FINE IL PERCORSO SAREBBE COMUNQUE PROSEGUITO. OLTRE AL DANNO, LA BEFFA” – “E COMUNQUE LA POLITICA AVEVA GIÀ DECISO. IL NOSTRO GOVERNO VOLEVA FORTISSIMAMENTE ENTRARE NEL CLUB. PURE LA GERMANIA LO VOLEVA. MOTIVAZIONI IDEALI CERTO; MA ANCHE VENDERE PIÙ FACILMENTE LE BMW E VOLKSWAGEN…”
-Fabio Dragoni per “La Verità”
«"Caro Governatore, sarebbe opportuno avere i dettagli del piano di creazione monetaria". La richiesta mi arriva da un alto dirigente del Tesoro al lavoro sulla legge finanziaria. Sono diventato governatore nel 1993».
Scena pensabile solo in un Paese monetariamente sovrano. Il governo vuol sapere in anticipo fin quando potranno aprirsi i cordoni della borsa di chi stampa moneta. Parlare con Antonio Fazio non è semplice. Un'intera carriera in Banca d'Italia dal 1960 al 2005. Economista di razza «keynesiano». A suo agio con i numeri. E di questi parleremo. E di banche, euro, tassi di interesse, oro e vigilanza.
Tutto ciò che riempie l'agenda di un banchiere centrale. Assieme ai momenti storici di cui è stato spettatore, e talvolta artefice contro voglia. Lui sa che vorrei parlare di banche Mps e Antonveneta. Io so che non ne vorrà parlare. Fazio, 84 anni, è ritirato a vita privata: niente smartphone e niente Whatsapp. Neanche computer. Inviargli una mail è complicato.
Il tavolo della veranda popolato di tabelle, relazioni, grafici e numeri. Lavora al suo libro in uscita. Nel suo ritiro di Alvito (Frosinone) alle pendici dell'Appennino abruzzese, tante testimonianze di una fede sincera. Ricordi di visite presso la Santa Sede.
Quanto le è umanamente costato assistere al passaggio dalla lira all'euro? Lei non ha mai nascosto il suo euroscetticismo.
«Un uomo delle istituzioni fa valere le sue idee ma poi rispetta la volontà politica, una volta presa la decisione. Mi sarei potuto dimettere, e ci ho pensato. Ma a cosa sarebbe servito? Gli investitori avrebbero preso atto di una grave frattura istituzionale.
La speculazione si sarebbe abbattuta sul Paese. E alla fine il percorso sarebbe comunque proseguito. Oltre al danno, la beffa. L'incontro fra banchieri centrali nel marzo del 1997 essenzialmente mi dava ragione. L'Italia non poteva entrare nella moneta unica e sarebbe stato più saggio - come avevo più volte detto - rimandarne l'ingresso».
Ed anziché compiacersi del fatto che aveva ragione
«Dissi che il progetto non sarebbe decollato senza l'Italia. Non era una minaccia, né un auspicio. Neppure un ricatto, come ebbe a dirmi prima di cena il collega Trichet quella sera. Era una banale constatazione.
E comunque la politica aveva già deciso. Il nostro governo voleva fortissimamente entrare nel club. Pure la Germania lo voleva. Motivazioni ideali certo; ma anche vendere più facilmente le Bmw e Volkswagen. L'Italia con la lira sarebbe stato un concorrente formidabile».
L'esito della decisione fu?
«Promozione con riserva. Scritta in un linguaggio ambiguo. Ciampi fu costretto a chiedermi: «Antonio, ma siamo stati promossi o bocciati?»».
Il problema vero non era tanto entrare nell'euro, quanto restarci. Perché?
«Ricorderà il bradisismo di Pozzuoli: il terreno lentamente, ma inesorabilmente, scendeva. Quello sarebbe stato l'euro per l'Italia. Nessun terremoto. Avremmo progressivamente perso reddito e produzione industriale. Purtroppo, avevo ragione. Se l'economia dell'eurozona fosse cresciuta, saremmo cresciuti di meno. Se invece fosse arretrata, saremmo arretrati di più».
Fazio si alza mi illustra dati e tabelle. Mi incuriosisce un dettaglio. Fazio aveva un rapporto di stima e fiducia ricambiata con il capo della Bundesbank. Un filo diretto da pari a pari. Oggi l'Italia è invece spettatore di un patto Parigi-Berlino di cui non fa parte.
L'ex governatore spiega: «Wim Duisenberg (il primo presidente olandese della Bce, ndr), persona che ho sempre apprezzato e stimato, mi chiamò imbarazzato. Non lo avevo avvertito di una decisione congiunta sui tassi presa con Tietmeyer e la traduzione in italiano gli sembrava ambigua. Lo rassicurai».Ma gli olandesi non sono pappa e ciccia coi tedeschi?«Sono ultratedeschi».
L'Olanda, grazie all'euro, accumula surplus commerciali spaventosi. Un parassita valutario
«È il mondo che è in disavanzo con loro, le risponderebbero (ride)».
Lei disse: non rimane che rendere l'inferno dell'euro un purgatorio. Nel decidere il rientro nello Sme quale preludio all'ingresso nella moneta unica fu coinvolto?
«No»
Beh, questo è piuttosto clamoroso. E sulla difesa del cambio lira/marco nel 1992, anche se non era governatore, fu coinvolto?
«Mi occupavo di tassi di interesse e politica monetaria. Anche qui: il cambio lo seguivo con attenzione, ma non era nelle mie competenze».
A metà degli anni Settanta ha negoziato un prestito con il Fmi. La prova, secondo qualche buontempone, che l'Italia con la lira rischiava il default.
«(Ride) Un normalissimo prestito per integrare le riserve valutarie. Servono per intervenire sul mercato dei cambi con acquisti e vendite mirate. E lei comunque parla con uno che in 45 anni ha monitorato i dati tutti giorni e non ha mai visto un beneficio che uno adottando un cambio rigido o semirigido».
A proposito di riserve: mi spiega come fa l'Italia ad essere il terzo o quarto Paese al mondo quanto a riserve auree?
«Abbiamo saggiamente investito i surplus commerciali del Dopoguerra in oro. Quegli investimenti sono stati nel tempo estremamente profittevoli, grazie alla rivalutazione. È da sempre una sicurezza per la nostra moneta anche come parte dell'euro. La stampa specializzata spesso criticava questa nostra politica. Salvo poi ricredersi».
La Fed che accetta dollari che può stampare all'infinito in cambio di oro per definizione limitato. Ma perché?
«Con la convertibilità a dollaro-oro gli Usa hanno di fatto imposto la loro moneta come valuta di riserva mondiale. E dopo il 1971, con la fine di questo regime ed al netto dei vari shock petroliferi, la supremazia valutaria del dollaro è proseguita.
Oggi gli Usa sono l'unico Paese che, almeno finanziariamente, può permettersi ampi e persistenti deficit commerciali. Il dollaro svolge per gli Stati Uniti quella funzione che forse Keynes immaginava per il «bancor», la moneta mondiale per il commercio.
Un affare per loro, ma anche per l'Italia. Ho sempre pensato che un bravo banchiere centrale debba contare anche sull'oro. È sacro. È la forza di un Paese. Ci accordammo nell'ambito del Sebc (Sistema Europeo di Banche Centrali, ndr) per conferirvi un minimo di riserve in oro. Che poi hanno in parte venduto e costruito una sede imponente. Vabbè».
I fatti le hanno dato ragione.
«No, ho peccato di ottimismo. Meglio, di insufficiente pessimismo. Non avevo messo in conto scelte politiche sbagliate che hanno addirittura peggiorato la situazione. Non si sono cambiati direttamente i Trattati, ma lo si è fatto in maniera subdola tramite accordi intergovernativi. Due su tutti: la vigilanza sulle banche e il patto di stabilità e crescita. Anzi, stabilità e basta».
Sulla vigilanza ci arriviamo fra poco. Mi dica del secondo
«Il rapporto debito/Pil è una frazione. Il numeratore è superiore al denominatore. Se abbasso il numeratore diminuendo ad esempio gli investimenti pubblici, arretra pure il denominatore. Non servono raffinati modelli econometrici per capire che il rapporto aumenterà.
E non parlo dei moltiplicatori che amplificano il tutto. Seguendo i consigli della Commissione Ue abbiamo continuamente aumentato il rapporto debito/Pil da poco sopra il 100% ad oltre il 140%. Poi è arrivata la pandemia».
Chiaro. Quindi le chiedo: fu ignoranza o malafede?
«Penso che sia il frutto di una scarsa analisi. O meglio, una concezione contabilistica dell'economia. Il resto è malafede».
Antonio Fazio si alza prende un libretto con una sua lectio magistralis e dice: «Legga qui». C'è scritto: «Dobbiamo tornare al principio di sussidiarietà che è parte essenziale del trattato di Roma. In esso si dichiara che ogni Stato deve fare la politica più consona ai propri obiettivi finali, coordinandosi poi in sede europea con gli altri Stati».
Sono parole sue?
«Sì, ma solo parole purtroppo. Abbiamo arretrato su tutto. Consumi, investimenti e spesa pubblica. Tranne che sulla bilancia commerciale. E non perché esportiamo di più, ma perché importiamo di meno. Avendo fatto austerità, abbiamo diminuito l'import.
Mentre l'export è cresciuto in proporzione di meno rispetto a quello di altri Paesi. Quanto alla vigilanza».
Qui devo interromperlo. Ho sottomano una sua citazione invecchiata meglio di un barolo. Recita: «La vigilanza Bce non funziona. Continue immissioni di regole e richieste di ricapitalizzazioni. Questa attività dovrebbe tornare di competenza degli Stati nazionali e a livello europeo solo il coordinamento. È come se la salute delle persone fosse affidata, invece che ai medici di base, ai ministri della Sanità. Questi decidono, con regole e leggi, medicina e dose per ogni patologia. E, in caso di malattia, obbligano il paziente a curarsi con la medicina stabilita».
In tempi di pandemia, tachipirina e vigile attesa questa sua citazione va letta tutta d'un fiato.
«Di nuovo il principio di sussidiarietà. Confermo me stesso: ritengo sia stato un errore attribuire la vigilanza sui sistemi bancari al Sebc e quindi alla Bce».
Che oggi è costretta a continue iniezioni di liquidità. E se tutto si ferma che succede?
«Draghi ha abilmente forzato i Trattati con questa manovra di politica monetaria non convenzionale. Spread sedati, ma il credito riparte solo con una buona domanda di credito. Prestiti che vengono restituiti, per intendersi».
E come si rilancia il credito?
«Rilanciando l'economia. È semplice. Il Sebc avrebbe potuto, anzi dovuto, creare moneta per acquistare titoli Bei con i quali finanziare investimenti in infrastrutture. Sollevando in tal modo la depressa congiuntura dell'area euro».
Lei sa che devo chiederle di Mps e Banca Antonveneta, vero?
«Non mi occupo più di banche. Mi sono occupato di stabilità bancaria e credo di averlo fatto bene. Molte le crisi, tante le ristrutturazioni. Le banche sono diminuite durante il mio operato da 1.100 a 700. Interventi tempestivi, silenziosi, professionali e mirati. Nessun fallimento. Cos' altro dirle?».
Fazio potrebbe dirmi - ma non lo fa - che nel 2005 autorizzò l'acquisto di Banca Antonveneta. A valutazioni concorrenti intorno a 6,3 a 6,5 miliardi. E tutti brontolavano. Dopo appena due anni il suo successore autorizza Mps ad acquistare Antonveneta a 16 miliardi (9 di equity più 7 di debiti) senza dentro neppure la controllata Interbanca. E senza neppure una due diligence. E tutti applaudono. E poi quasi 23 miliardi di successivi aumenti di capitale a Siena finiti nel nulla. Alla faccia della stabilità del sistema bancario. Una verità storica ancora da riscrivere. Ma a Fazio ora interessa solo finire il suo libro.