MORIRE DI VIRUS O DI FAME? – LE CONFINDUSTRIE DEL NORD PREMONO PER UNA RIAPERTURA DELLE AZIENDE, COSA CHE SUCCEDERÀ PROBABILMENTE GIÀ DOPO PASQUA – INTANTO BONOMI, PRESIDENTE DI ASSOLOMBARDA E CANDIDATO PER CONFINDUSTRIA, TIRA QUALCHE FRECCIATONA A CONTE: “C’È MANCANZA DI VISIONE. LA VIA DEL GOVERNO È FAVORIRE L’INDEBITAMENTO DELLE IMPRESE. E UNA QUESTIONE DI METODO, DEL PROVVEDIMENTO DI DOMENICA NON C'È ANCORA UN TESTO. NON SI PUÒ TENERE UN PAESE NELL’INCERTEZZA…”
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1 – «PER RIPARTIRE SERVE UNA VISIONE, ALLE IMPRESE CERTEZZE E VELOCITÀ»
Rita Querzè per il “Corriere della Sera”
Le Confindustrie del Nord — dal Piemonte al Veneto, passando per Lombardia ed Emilia Romagna — vogliono far ripartire le fabbriche subito dopo Pasqua.
Sì, ma come? Gli imprenditori hanno più titoli per decidere rispetto a chi vigila sulla salute dei cittadini?
«Di sicuro gli imprenditori sanno come fare funzionare un’impresa. Sanno cosa serve perché la produzione resti in piedi. E, come dimostra l’attività di tante aziende in queste settimane di emergenza, sanno anche come gestire i reparti in sicurezza. Peccato che il governo in queste settimane non ci abbia coinvolto.
Avremmo potuto dare un contributo importante. Per trovare una soluzione — sia chiaro — non solo a tutela della produzione, ma della produzione e della salute insieme», rivendica Carlo Bonomi, il presidente di Assolombarda, la prima territoriale di Confindustria. Ma anche il candidato favorito alla presidenza di Viale Dell’Astronomia (parola dei «saggi» della stessa associazione, gli imprenditori che hanno il compito di vigilare sullo svolgimento delle elezioni che si terranno a distanza settimana prossima, il 16 aprile).
Il presidente del Consiglio ieri ha incontrato il Comitato tecnico-scientifico per discutere della ripartenza.
«La nostra sensazione è che non ci sia una visione su come affrontare la cosiddetta fase 2. Molto più facile trincerarsi dietro un rassicurante “stiamo tutti a casa”. Onestamente non abbiamo nemmeno ben capito chi stia contribuendo alle decisioni che saranno prese. I comitati tecnico-scientifici di riferimento sono addirittura due. Uno presso la presidenza del Consiglio e uno presso il ministero dell’Innovazione. Senza chiarezza su chi decide».
Secondo lei quindi bisogna ripartire subito. Ma come? Mandando prima al lavoro chi rischia meno, cioè i giovani? Con i test sierologici di massa?
«Guardi, queste sono questioni che vanno affrontate con estrema serietà. La prima cosa è avere i dati a disposizione che finora il governo non ha condiviso. Abbiamo solo dati aggregati. Poi bisogna mettere in campo metodi di diagnostica precoce del contagio. Abbiamo i mezzi per farlo. Infine servono i dispositivi di protezione. Dati, diagnostica e dispositivi, questa è la strada».
Le nostre imprese non producono mascherine.
«Non si può non riconoscere che lo sforzo per riconvertisi in emergenza sia stato straordinario. E sta dando ottimi risultati. Solo in Assolombarda sono 15 le aziende che si sono riconvertite per produrre mascherine. Vedo un altro problema piuttosto».
Quale?
«Non si procede in modo altrettanto veloce con le certificazioni delle mascherine e degli altri dispositivi».
Trova adeguata la liquidità che il governo ha messo a disposizione delle imprese?
«Prima di entrare nel merito dei provvedimenti, mi lasci dire che il limite a monte di tutto mi pare la mancanza di visione. Stesso discorso per quanto riguarda le strategie e i tempi della ripartenza. Detto questo, la via del governo per uscire dall’emergenza è quella di favorire l’indebitamento delle imprese.
Non è una scelta senza conseguenze. Più alto è l’indebitamento, più difficile diventa investire. Ma se proprio si vuole andare in questa direzione, sei anni non possono essere certo il termine entro cui questi prestiti vanno restituiti. Prendiamo la crisi del 2008: non sono bastati dieci anni al Paese per riguadagnare gli stessi livelli di Pil. Perché adesso dovremmo farcela in sei?».
Cosa pensa del sistema delle garanzie? Per le piccole imprese è lo Stato a garantire i prestiti al 100%.
«Più che le piccole imprese io dire le microimprese. Moltissime aziende per ottenere questo prestito in emergenza dovranno comunque attivare con le banche una valutazione del merito di credito. E questo è un problema. Per finire vorrei sollevare anche una questione di metodo».
Quale?
«Domenica sera il governo ha annunciato un provvedimento di cui ancora oggi non abbiamo un testo. Non si può tenere un Paese nell’incertezza, tantomeno in un contesto di emergenza come questo».
Il decreto dovrà essere convertito e potrebbe essere modificato in parlamento. Cosa servirebbe?
«I prestiti devono essere articolati su almeno 10-15 anni di durata. E la garanzia totale dello Stato deve essere allargata alla maggioranza delle imprese, escludendo soltanto chi ha fatturati di miliardi. Inoltre non è accettabile che le scadenze fiscali vengano prorogate per soli due mesi mentre lo Stato prende per sé due anni in più di accertamenti fiscali. Se facciamo indebitare le imprese per pagare le tasse vuol dire che non abbiamo capito nulla».
C’è il rischio che ad approfittare dei fondi per le imprese in difficoltà sia anche chi se la sta passando bene?
«Scusi ma questo modo di ragionare tradisce un pregiudizio anti-impresa ancora molto diffuso. Questa impostazione parte del presupposto che le imprese siano scorrette. Le imprese non sono il problema ma la soluzione dell’emergenza di questo Paese. Alle aziende va dato quello che serve per ripartire. E, poi, certo, si facciano pure tutti i controlli del caso».
Le imprese chiedono solo liquidità e ammortizzatori? In mancanza di domanda estera e interna, potrebbero essere gli investimenti pubblici a far ripartire il Paese?
«Quando sento parlare di spesa pubblica non riesco a trattenere una certa diffidenza. Anche Reddito di cittadinanza e Quota cento sono state spacciate come misure che avrebbero rilanciato la domanda interna. E poi ci sono tante risorse già mobilitate che non riusciamo nemmeno a spendere. Dovremmo cominciare da lì».
Il governo pensa a un allargamento di meccanismi come il golden power per evitare che aziende strategiche siano acquistate da stranieri. Che ne pensa?
«Anche i campioni dell’impresa italiana in questi anni hanno acquisito aziende straniere. Aiutiamo le nostre imprese a rafforzarsi, questo è il vero modo per proteggerle. Da questa crisi usciremo più globalizzati».
Pessimista rispetto all’uscita dell’Italia dalla crisi?
«No, al contrario. Penso che nella sua tragicità questa emergenza ci stia offrendo anche un’opportunità. Quella di rilanciare il Paese eliminando una volta per tutte le zavorre che ci hanno frenato negli ultimi vent’anni».
Un esempio?
«Oggi non ci possiamo permettere più le lentezze burocratiche che hanno paralizzato il sistema produttivo. La cassa Covid non è ancora arrivata alle imprese».
Il governo sta conducendo nel modo più efficace la trattativa in Europa?
«Nel confronto tra Mes ed Eurobond non commettiamo il pericoloso errore di isolarci. Alla fine sarebbe svantaggioso. Non dimentichiamoci che oggi l’Italia ha accesso ai mercati solo grazie alla Bce».
Quanto possono aspettare le imprese per la liquidità promessa?
«Il fattore tempo è diventato fondamentale. Non solo bisogna fare, bisogna fare subito. Questa è l’occasione per l’Italia che vuole cambiare passo».
2 –IL BRACCIO DI FERRO SULLE RIAPERTURE. IMPRESE, TRE FASCE
Diodato Pirone per “il Messaggero”
Ieri in tutt'Italia sono stati effettuati oltre 50.000 tamponi antivirus, quasi il doppio della media degli ultimi giorni. Ma il numero dei casi complessivi (comprensivo di guariti e deceduti) è salito di sole 3.000 unità, In pratica è risultato positivo un tampone ogni 15 mentre il 30 marzo il risultato era stato di un caso di positività ogni 5 tamponi. Un altro mondo.
Questo paragone più di ogni altro testimonia del rallentamento della forza di espansione del virus. Che resta insidioso e feroce ma che ogni giorno di più stiamo imparando a dominare.
Che la febbre epidemica abbia imboccato la discesa non lo nega più nessuno. Di qui la più classica della domande: quando avviare la riapertura del Paese? Prima della diffusione dei dati la Confindustria ha avviato il pressing per chiedere al governo - in condizioni di sicurezza - di aprire la cosiddetta Fase Due nel Nord. La preoccupazione degli industriali è evidente: ogni giorno che passa la condizione economica delle aziende chiuse si aggrava a causa dei costi fissi incomprimibili, si perdono fornitori e commesse, si rischia di uscire dalle catene internazionali del valore che facendo aumentare l'export hanno tenuto in piedi il Paese negli ultimi anni. Di qui un appello accorato al premier affinché anche grazie alla disponibilità delle mascherine e dei guanti e di altri dispositivi di sicurezza ovunque sia possibile si allentino le maglie della chiusura.
I PIANI AZIENDALI
Il governo deciderà il da farsi nei prossimi giorni anche se già fin d'ora è chiaro che non ci sarà il liberi tutti improvviso; non si tornerà a correre nei parchi; non apriranno negozi, bar e ristoranti. A tutto ciò il governo penserà nelle prossime settimane anche sulla base di una mappa che l'Inail sta predisponendo, con tutte le attività lavorative e il relativo indice di rischio connesso. L'obiettivo è di indicare le linee guida sulle modalità con cui le diverse professioni potranno ripartire. La mappa prevede tre diversi indici di rischio (basso, medio e alto): ad ogni livello dovrebbero corrispondere adeguate misure di protezione e di distanziamento sociale.
La ratio è di fornire una serie di misure organizzative per consentire la ripresa delle attività, con particolare attenzione ai lavoratori fragili e alle situazioni dove è richiesta una sorveglianza sanitaria speciale.
Per ora dunque si resta ancora a casa. La certezza è arrivata dalla stessa cerimonia che ogni giorno sta celebrando - senza enfasi - la vittoria italiana sul virus: la conferenza stampa delle 18 della Protezione Civile. A questo evento ieri era presente il vicedirettore dell'Oms Ranieri Guerra che è stato chiarissimo: la curva dell'epidemia sta scendendo ma abbandonare le misure di contenimento ora sarebbe «deleterio perché la curva può risalire con nuovi focolai» e questo «vanificherebbe tutti i sacrifici fatti finora. È il momento di serrare le fila». Il che nel linguaggio degli scienziati significa una cosa sola: è troppo presto per riaprire tutto.
Anche dall'Ue - che osserva con crescente preoccupazione la virulenza dell'epidemia in Spagna, Olanda e Francia - è arrivato un appello alla prudenza. La commissaria Ue alla Salute, la cipriota Stella Kyriakides, ha telefonato al ministro italiano Robertto Speranza per manifestare i suoi timori. E Speranza ha fatto subito sapere alla stampa d'averla rassicurata.
Va segnalato comunque che nel frattempo moltissime imprese stanno mettendo a punto piani di riapertura. Nei giorni scorsi alcune acciaierie hanno iniziato a produrre al 50% delle possibilità. Ieri Ferrari ha reso noto d'aver raggiunto un accordo con i sindacati: si lavorerà in sicurezza e i dipendenti su base volontaria potranno farsi controllare il sangue e avere informazioni su possibili positivi via telefonini.