Penisola dei Famosi
Non è una confessione e nemmeno un'assoluzione il "Confiteor" che Cesarone Geronzi ha mandato oggi nelle librerie per raccontare "una storia mai raccontata".
Questo tomo di 364 pagine, diviso in 8 capitoli con un prologo e un epilogo, somiglia piuttosto a una bomba a grappolo, un ordigno sganciato dalle altitudini del potere frequentate per cinquanta anni a cavallo tra la politica e la finanza.
E anche se fin dall'inizio la definisce "una prova di resistenza con un giornalista, tra i più distanti dalle mie tesi", la lunga conversazione con Massimo Mucchetti tradisce una voglia di vendetta che va oltre le migliori intenzioni. D'altra parte basta sfogliare le prime pagine per capire che l'ex-banchiere di Marino non potrà mai cambiare la sua natura anche ricorrendo nel titolo del libro la liturgia della Chiesa.
CESARE GERONZIE' lui stesso a dirlo quando davanti allo scetticismo del giornalista afferma con orgoglio "non mi ritengo un peccatore", e poi dopo un'altra affermazione ,poco credibile per chi l'ha conosciuto, aggiunge "sono abituato a perdonare non a dimenticare". Parole di un uomo che pensa di non temere nulla e di voler ricostruire la sua verità perché questo è il suo "habitus naturale".
Geronzi è stato morso dal serpente del potere che gli ha inflitto la dura lezione delle dimissioni dalle Generali, ma non ha paura di camminare nell'erba alta e come tutti quelli che sono stati abituati a cavalcare la tigre si difende dalle ricostruzioni pungenti di Mucchetti ed esclama a voce alta: "grandi demeriti in verità non me li riconosco".
Queste parole le dice a pagina 12 e bisogna arrivare addirittura verso la fine dell'opera per trovare una fugace ammissione sugli errori che può aver fatto.
Prima ancora di definirla una bomba a grappolo diciamo che questo lavoro a quattro mani per il quale erano stati, prima di Mucchetti, suggeriti i nomi di Oscar Giannino e Aldo Cazzullo, è una lezione sul potere e di potere che offre un'infinità di spunti poiché si tratta di un lavoro complesso che ha il merito indubbio di alzare il velo su un'infinità di situazioni e di vicende nelle quali personaggi grandi e piccoli della finanza e dei cosiddetti poteri marci hanno affondato le mani per trarne benefici e tornaconti senza pagare il giusto prezzo.
LORENZO PELLICCIOLIÈ la lezione laica di un potere che ha intrecciato le stanze di quel Vaticano che oggi agli occhi di Geronzi conta poco o nulla,e nella quale prevale la visione di un sistema che come dice lo stesso Geronzi è sul viale del tramonto e sta per esaurirsi. Di questo sistema l'autore, incalzato dal guru del "Corriere della Sera", vorrebbe sbrogliare le parti più oscure con la carezza di un ragionamento cartesiano e un contegno decente che non scende mai nella volgarità.
Anzi, la volgarità è ricacciata e rinfacciata quando il buon Mucchetti gli chiede se i 16,6 milioni di euro concessi dalle Generali per uscire dal palazzo di Trieste non siano stati un compenso esagerato. Per uno che intende volare alto per ripassare la storia degli ultimi 25 anni di finanza italiana, i pungiglioni e i veleni micidiali sono ben altri. Sono quelli che si ritrovano dietro le figure di Lorenzo Pelliccioli, del pallido Alberto Nagel e dello scarparo marchigiano Della Valle autori del complotto dell'aprile 2011 quando per bocca di Bollorè e con Caltagirone dietro le quinte, fu comunicato a Geronzi che era l'ora di alzare i tacchi dalla poltrona delle Generali.
RENATO PAGLIARO E ALBERTO NAGEL DAL CORRIERE jpegUna certa sorpresa si prova quando la bomba a grappolo colpisce prima di altri il gruppo De Agostini e la persona di Lorenzo Pelliccioli ai quali viene attribuito in modo analitico un groviglio di interessi intorno alle Generali che sulle agendine in pelle nera di Geronzi è stato memorizzato con precisione luciferina. Poi le schegge della bomba a grappolo si allargano all'affare Generali-Ppf, con quel fantomatico banchiere di Praga, Kellner, che con Perissinotto ha partorito una joint venture che pesa ancora oggi sui conti della Compagnia assicurativa.
DIEGO DELLA VALLE jpegInutile dire che nella fotografia di gruppo c'è uno spazio "speciale" per il pallido Alberto Nagel e la sua controfigura Renato Pagliaro. Per quanto possa sembrare paradossale il giudizio di Geronzi su entrambi e sulla decadenza di Piazzetta Cuccia ha gli stessi toni usati da quello scarparo marchigiano al quale l'ex-presidente di Mediobanca attribuisce il cliché di un capitalista di vecchio stampo.
Scriveva Flaubert che il buon dio è nei dettagli e di dettagli minuziosi è piena questa" lectio magistralis" di Geronzi che riesce a fare una doppia operazione.Da un lato toglie peso alle figure umane dei suoi nemici e senza pietas li calpesta e colpisce nei loro intrighi; dall'altro, riesce a dare consistenza esagerata ad altre figure umane sulle quali la sua prudenza proverbiale viene decisamente meno. Così accade quando parla di Palenzona "un maranghiano senza il quale di Mediobanca resta poca cosa", oppure di Paoletto Scaroni che a pagina 33 del "Confiteor" viene addirittura promosso a ministro degli Esteri di non si sa quale governo.
Francesco Gaetano CaltagironeCe n'è per tutti, anche per quelli che hanno comprato Ntv senza cacciare il becco di un quattrino, per il vecchio Bernheim definito un "eccentrico", per Gianni Letta che nel momento del bisogno quando il complotto alle Generali si stava consumando, si è dato alla macchia nonostante il salvataggio di Berlusconi e della sua Fininvest.
I giornali oggi hanno già detto e scritto in abbondanza "l'eclatante delusione" per Paolo Mieli e soprattutto per quel Tremonti dall'ambizione sfrenata che all'inizio del 2011 sognava la premiership di intesa con le Fondazioni e le banche.
Ma c'è posto anche per qualche icona, e anche se il ragioniere di Marino si sforza di scollare la sua storia da quella di Giulio Andreotti, nelle pagine del libro si capisce che quello è stato un momento decisivo che gli ha consentito di riunire tre banche in una sola e di portare avanti il capolavoro della sua vita, la Capitalia venduta per 22 miliardi a Profumo quando oggi , a suo dire, vale ben poco. E poi c'è l'icona di D'Alema, la quintessenza del potere e del cinismo, che un giorno (come si legge alla pagina 353) arrivò a dire di Cesarone "è migliore della sua reputazione".
PERISSINOTTOLa confessione è lunga e non si può raccontarla tutta. La bomba a grappolo colpisce i personaggi di un sistema defunto, arriva in faccia a Monti e ai suoi tecnici, brucia sulla faccia di Bernabè e di Matteuccio Arpe (peraltro sempre rosolato) ma visto come un figliol prodigo che ha tradito sapendo di tradire.
PALENZONA BUFFETIl piatto di Mucchetti è fin troppo ricco e dentro la memoria di Geronzi non piovono le lacune perché lui ce la mette tutta a difendere la sua credibilità e la buonafede.
Dice di non avere più carisma, ma di averlo avuto, di essere abituato a perdonare e di non ritenersi un peccatore, di non sentirsi logorato e di non coltivare rancori. E quando il Mucchetti lo incalza con la domanda: "crede di essere creduto?", il ragioniere di Marino che vuole essere chiamato soltanto "signore" senza altri soprannomi roboanti, risponde: "lo pretendo!". È un peccato di presunzione sul quale mai pronuncera' "mea culpa"..