UNICREDIT-MPS, GENERALI E TELECOM: I TRE DOSSIER CHE TURBANO LE NOTTI DELLA FINANZA ITALIANA – LA MOSSA DI ORCEL SU MONTEPASCHI POTREBBE INFLUENZARE TUTTO IL PANORAMA BANCARIO ITALIANO, CREANDO DI FATTO UN DUOPOLIO AL VERTICE DEL SISTEMA CON INTESA - QUANTO DURERÀ IL RUMOROSO SILENZIO DI DEL VECCHIO SULLA PARTITA PER LA GOVERNANCE DI GENERALI? I DUBBI DI DRAGHI, FRANCO E COLAO SULLA RETE UNICA…
-Francesco Manacorda per "Affari & Finanza - la Repubblica"
Alti lai per il governo che quest' anno - ordine di Mario Draghi - non va in vacanza. Ma c'è un'altra categoria non esattamente svantaggiata che in questo ultimo scorcio d'estate vedrà da lontano mari e monti, o se lo farà dovrà portarsi dietro corposi dossier da studiare con diligenza in vista di un autunno che si annuncia ricco di novità.
Il Big Bang del nuovo governo colpisce anche il mondo della finanza e i suoi protagonisti, punta a chiudere vicende che sembravano destinate a rimanere sospese in eterno, ridisegna i rapporti nel triangolo Stato-mercato-capitalisti di casa nostra. Si può cominciare dalla fine, ovvero dalle novità degli ultimi giorni, che riaprono di prepotenza il fronte bancario.
Sul Monte dei Paschi di Siena la linea del governo è stata tracciata senza anticipazioni ufficiose, ma alla fine seguendo il percorso che tutto il mercato prevedeva da mesi: fusione con Unicredit, guidata da Andrea Orcel, e contemporaneo disimpegno del Tesoro dal pozzo senza fondo di perdite che sta a Siena, con un prevedibile ingresso dello Stato proprio nel capitale di Unicredit.
Le opposizioni, e non solo loro, scalpitano. Per i 5 Stelle si rischia una "svendita" della banca, per la Lega l'operazione è un salvagente gettato al Pd, che ha esercitato per anni il suo potere sul Monte. Ma in quella che è ormai prassi abituale del governo Draghi le proteste dei partiti contano poco e - come ha spiegato il ministro del Tesoro Daniele Franco - altre strade non ci sono.
Se la strada politica è segnata, quella industriale che deve dar senso compiuto all'operazione sembra ancora in larga parte da tracciare. Il fatto che Unicredit assorba oltre mille sportelli di Mps e gli oltre 3 milioni di clienti che a questi fanno riferimento non è di per sé un vantaggio per la banca acquirente, né la garanzia che la parte ceduta prosperi sotto il nuovo cappello. Anzi, oggi uno sportello bancario è più un passivo che un attivo.
Chi li compra lo fa appunto per poter vendere prodotti e servizi a una base più ampia di clienti. E il problema di Unicredit è che durante l'era di Jean Pierre Mustier al comando ha venduto l'argenteria di casa, dalla banca online e piattaforma di trading Fineco, alla fabbrica di prodotti per il risparmio gestito Pioneer.
Certo, Orcel è prima di tutto uomo di fusioni e acquisizioni e avrà ben chiaro quel che si dovrà fare per rendere profittevole la fusione, dunque non si può escludere qualche acquisizione proprio nel settore del risparmio gestito. Sempre ammesso che i soci, già scottati da 13 miliardi aumento di capitale chiesti e ottenuti da Mustier a inizio 2017, abbiano ancora intenzione di metter mano al portafoglio.
La mossa di Unicredit non cambierà solo i destini di Siena, ma potrebbe influenzare tutto il panorama bancario - e non solo - italiano. Se l'operazione andrà in porto si creerà infatti un sostanziale duopolio al vertice del sistema, con Intesa- Sanpaolo ancora al primo posto e Unicredit-Mps che la segue da vicino.
Un bene per il sistema creditizio, probabilmente, ma un movimento tellurico per il sistema industriale, che vedrà ridursi il grado di concorrenza del settore creditizio. Niente Stato, ma una battaglia tra due visioni di capitalismo, nel più classico degli scontri che andrà in scena questo autunno, ossia quello sulla governance delle Generali e risalendo per le catene societarie, di Mediobanca.
Le posizioni in campo sono note: Mediobanca, azionista di maggioranza relativa con il 12,8% di Generali, ha spinto perché il colosso assicurativo adottasse il suo stesso modello di governance, ossia la lista per la formazione del consiglio presentata dallo stesso cda.
La decisione è stata votata lo scorso anno all'unanimità dai consiglieri del Leone, compreso il vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, cioè il socio che con il 5,8% della compagnia e un 3% della stessa Mediobanca (in settembre dovrebbe arrivare al 5%), vuole a tutti costi una nuova governance a Trieste, spodestando l'attuale amministratore delegato Donnet. Caltagirone è convinto di avere dalla sua parte anche Leonardo Del Vecchio, il patron di Essilux che ha anch' egli il 5% delle Generali e addirittura il 20% di Mediobanca.
Del Vecchio però al momento tace. Quel che appare chiaro è che i due grandi azionisti "privati" di Generali, nonché di Mediobanca, vogliono far pesare il loro ruolo. E questo, nelle loro intenzioni, difficilmente si concilia con l'idea di formare un cda scelto dallo stesso consiglio, con una forte maggioranza di indipendenti e idealmente nessun rappresentante dei principali soci.
Una visione padronale, accusano dalle parti di Mediobanca, che vuole pochi capitalisti dominare sulla compagnia con una quota tutto sommato limitata del capitale, mentre la lista del cda sarebbe il trionfo del mercato che alla fine rappresenta davvero il più importante socio delle Generali, visto che pesa per il 45% dell'azionariato.
Critiche ipocrite, è la risposta che si riceve almeno dal fronte Caltagirone: Mediobanca ha da decenni e fino ad ora eterodiretto il Leone con una governance scelta da lei e adesso la lista del cda è solo un modo per perpetuare il controllo di fatto sulla compagnia.
Il percorso per la lista del cda è comunque avviato: se ne discuterà il 27 settembre - la settimana scorsa il consiglio lo ha deciso a maggioranza, con quattro significativi voti contrari, compreso quello di Caltagirone e del rappresentante di Del Vecchio - e a quel punto molto del dibattito potrebbe vertere su chi inserire in quell'elenco di nomi che vengono candidati per il mandato 2022-2024, a cominciare da quello di Donnet e del presidente Gabriele Galateri.
Infine, la partita della banda larga che coinvolge i destini di Telecom. Poco più di un anno fa un irrituale intervento a gamba tesa del governo Conte II nel corso di un cda di Telecom aveva gettato le basi - se l'improvvisazione mostrata allora dalla politica consente di usare questo termine - per la rete unica, spingendo la società ad avviare le trattative con Open Fiber per creare una rete unica.
Un anno solare e un'era politica dopo quel progetto non ha più padri. Il governo non ha mai celebrato ufficialmente le esequie della rete unica, ma di certo non la considera un cavallo su cui puntare, preferendo altre forme di collaborazione tra le società interessate.
E i prossimi mesi saranno il periodo giusto per vedere la dottrina Draghi alle prese con il ruolo dello Stato nelle infrastrutture: oggi la Cdp gioca un doppio ruolo in commedia, con il 10% di Telecom e il 50% (destinato a salire presto alla maggioranza assoluta, il 60%) di Open Fiber. Difficile che Dario Scannapieco, scelto da Draghi per guidare la Cassa depositi e prestiti, mostri velleità di voler giocare la partita da protagonista, più probabile che si ritagli un ruolo da regista, magari cedendo anche una delle due quote rotonde che ha oggi.