
"C'È IL RISCHIO CHE IN NOME DELLA 'INTEGRITÀ TERRITORIALE' SI CANCELLI LA CIVILTÀ TIBETANA" - NEL SUO NUOVO LIBRO, "UNA VOCE PER CHI NON HA VOCE", IL DALAI LAMA RACCONTA GLI OLTRE 70 ANNI DI LOTTA PER L'INDIPENDENZA DEL TIBET DALLA CINA: "I LEADER DELLA CINA COMUNISTA HANNO LA BOCCA PER PARLARE, MA NON HANNO ORECCHI PER ASCOLTARE. SIAMO NOI TIBETANI AD AVER VISSUTO SU QUELL'ALTOPIANO PER MILLENNI, E ABBIAMO OGNI DIRITTO DI CONTINUARE A ESSERNE I CUSTODI. LA QUESTIONE TIBETANA NON RIGUARDA LO SVILUPPO ECONOMICO, MA…"
Da "La Stampa"
Pubblichiamo, per concessione dell'editore Harper Collins, un estratto del nuovo libro del Dalai Lama, Una voce per chi non ha voce. Oltre settant'anni di lotta per la mia terra e il mio popolo, in libreria dal 18 marzo dalai lama
Dalai Lama, Una voce per chi non ha voce
Il 17 marzo 1959, in una notte gelida e buia, sgattaiolai fuori dall'ingresso principale del palazzo di Norbulingka travestito con un chuba, l'abito tradizionale usato dai laici. Fu l'inizio di oltre sessant'anni di vita in esilio lontano dalla mia terra natia, il Tibet. Il seme della fuga era stato gettato nel 1950, con l'invasione del Paese da parte della Cina comunista, ma l'effettiva necessità di scappare emerse solo con l'aumento delle tensioni a Lhasa, la capitale tibetana, fino allo scoppio di una rivolta popolare il 10 marzo 1959.
Per quasi nove anni, dopo l'invasione, avevo cercato un accordo con la Cina comunista per il bene della mia gente, ma l'impresa si era rivelata impossibile. Alcuni giorni dopo la mia partenza, l'esercito popolare di liberazione cinese bombardò la città. In questo modo presero avvio le tragiche vicende che segnarono il mio Paese e il mio popolo nella seconda metà del ventesimo secolo, e che sono proseguite anche nel ventunesimo.
Dal 1959, da quando cioè sono stato costretto all'esilio in India, ho sempre messo al primo posto la causa del Tibet e del suo popolo. Ormai mi avvicino ai novant'anni. La questione tibetana non è ancora stata risolta, e la mia terra natia è ancora nella morsa del dominio repressivo della Cina comunista. I tibetani rimasti in patria continuano a essere privati della loro dignità di popolo e della libertà di vivere la vita secondo i propri desideri e la propria cultura, come invece accadeva da più di un millennio prima del 1950. Poiché oggi qualsiasi espressione dell'identità tibetana è vista come una minaccia dai nuovi dominatori, c'è il rischio che in nome della "stabilità" e della "integrità territoriale" si facciano dei tentativi di cancellare la nostra civiltà.
Così ho scritto un libro che è, in primo luogo, il resoconto di oltre settant'anni passati a trattare con i vari leader della Cina comunista per conto del Tibet e del suo popolo. È altresì un appello alla coscienza non solo dei cinesi – molti dei quali condividono con noi l'eredità spirituale del buddhismo mahayana (o tradizione sanscrita, come la chiamo io) – ma anche della comunità internazionale, per sensibilizzare alla triste condizione dei tibetani.
La nostra è una crisi esistenziale: c'è in gioco la sopravvivenza di un popolo antico e della sua cultura, lingua e religione. Attingendo da ciò che ho imparato nel lungo periodo in cui ho avuto rapporti con Pechino, il libro si propone di offrire alcuni suggerimenti sul possibile cammino futuro.
Considerato che siamo un popolo con una lunga storia e una propria civiltà specifica, la nostra lotta continuerà, se necessario, anche oltre la durata della mia vita. Il diritto dei tibetani a essere i custodi della loro terra natia non può essere negato all'infinito, e l'aspirazione alla libertà non può essere schiacciata per sempre mediante l'oppressione. Un insegnamento chiaro che ci viene dalla storia è questo: se si costringono le persone all'infelicità perenne, non si può costruire una società stabile.
A differenza di tutte le mie altre missioni, che svolgo per libera scelta, la responsabilità della nazione tibetana e del suo popolo è ricaduta su di me nel momento in cui fui riconosciuto come Dalai Lama, all'età di due anni. La proclamazione ufficiale giunse nel 1950, quando divenni il leader temporale del Tibet all'età di sedici anni. Da allora ho messo al centro del mio cuore il dovere di proteggere il Tibet, la sua gente e la sua cultura, e così sarà finché vivrò. Si tratta del mio impegno principale, da aggiungere agli altri che mi sono assunto come parte della mia missione di vita.
Tra di essi: promuovere i valori umani fondamentali sulla base di un approccio universale o secolare; favorire la comprensione e l'armonia interreligiosa; incoraggiare un maggiore apprezzamento dell'antica saggezza ed erudizione indiana. In questi altri ambiti, sono felice di essere riuscito ad apportare contributi tangibili, partecipando a conversazioni di ampio respiro, scrivendo libri e portando avanti un esteso programma di visite internazionali.
Nel caso del Tibet, il mio incarico più importante e sentito, è stato molto più difficile. Ho fatto del mio meglio, senza sosta, per creare aperture al fine di negoziare un accordo con i comunisti cinesi, che invasero il mio Paese nel 1950. Ci sono stati tre periodi di dialogo intenso: negli anni Cinquanta, quando vivevo in Tibet e ne ero il giovane leader; negli anni Ottanta, quando il leader cinese Deng Xiaoping aprì la Cina al mondo; infine, nel primo decennio di questo secolo.
In tutti gli altri aspetti della mia vita e in tutti gli altri ambiti del mio lavoro mi sono relazionato con persone pronte ad accettare una visione condivisa, guidate dalla fiducia, capaci di esprimere con sincerità il proprio pensiero, anche se discordante, e davvero disposte a interagire e imparare.
Con i leader della Cina comunista, da Mao Zedong all'attuale presidente Xi Jinping, purtroppo la situazione è sempre stata molto diversa. Come dico spesso, i leader della Cina comunista hanno la bocca per parlare, ma non hanno orecchi per ascoltare.
Prendiamo, per esempio, il libro bianco sul Tibet pubblicato dal governo cinese nel maggio 2021. All'inizio del documento si afferma che, dopo l'invasione cinese del 1950, i tibetani «si liberarono per sempre dalle catene dell'imperialismo invasore, avviandosi su un luminoso cammino di unità» e oggi godono di «un ambiente sociale stabile prosperità economica e culturale». Secondo questa narrazione, dopo la «liberazione pacifica» del Tibet da parte della Cina comunista, la nazione tibetana e il suo popolo non hanno mai smesso di percorrere una parabola ascendente verso la libertà, la prosperità e l'appagamento in seno alla famiglia della Repubblica Popolare Cinese.
Ma se questo fosse stato vero, in qualsiasi periodo dopo l'invasione, come si spiegano gli oltre settant'anni di resistenza e risentimento ininterrotto dei tibetani nei confronti della presenza cinese? A quanto pare, i comunisti cinesi hanno una risposta molto semplice: la causa è «l'attività separatista condotta dalla cricca del Dalai Lama». Con ciò si riferiscono alla nostra lunga campagna non violenta per la libertà del popolo tibetano e ai nostri sforzi per salvare la lingua, la cultura, l'ambiente naturale e la religione che contraddistinguono il Tibet.
Tradizionalmente siamo noi tibetani ad aver vissuto sull'altopiano del Tibet per millenni, e abbiamo ogni diritto di continuare a essere i custodi della nostra terra natia. La questione tibetana non riguarda lo sviluppo economico, che – lo ammettiamo – è migliorato in misura significativa dopo la liberalizzazione della Repubblica Popolare Cinese. Piuttosto, riguarda il bisogno e il diritto di un popolo di esistere conservando la propria specifica lingua, cultura ed eredità religiosa. E poiché in Tibet non c'è libertà di parola, fin dall'inizio del mio esilio nel 1959 è toccato soprattutto a me il compito di essere la voce di chi non ha voce.
Il nostro obiettivo rimane quello di negoziare una soluzione con l'accordo di entrambe le parti, ma alla fine, per riuscirci, tibetani e cinesi dovranno sedersi a un tavolo a parlare.