violenza psicologica

“NIENTE TANGO E VIETATO FARE BRICIOLE QUANDO SI SPEZZA IL PANE” – A TORINO UN UOMO HA COSTRETTO LA MOGLIE A VIVERE IN UN REGIME DI UMILIAZIONI PER QUINDICI ANNI, IMPONENDOLE REGOLE ASSURDE COME MANGIARE LA PARTE DEL SALAME CHE RESTAVA ATTACCATA ALLA PELLE O NON BERE VIN BRULÈ – IL RACCONTO DELLA DONNA CHE HA DENUNCIATO: “IL BUDGET DI CASA ERA DECISO DA LUI, NON POTEVO MANGIARE CARNE DI CAVALLO AL SANGUE PERCHÉ SENNÒ MI DEFINIVA 'UN ANIMALE'. NON GLI ANDAVA BENE NULLA E…”

Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi per www.corriere.it

 

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Regole di casa («imposte dal marito», scriveranno i giudici nella sentenza): «Non sprecare le briciole quando si spezza il pane, mangia anche la parte del salame che resta attaccata alla pelle, e guai all’estrattore, immorale, perché spreca tutta la buccia». E poi, «vietatissimo il tango», e anche per questo che adesso — a matrimonio e processo finiti — lei, cinquantenne torinese, ha aperto una pagina Instagram («la_magliettagialla») per dare forza e consigli alle donne «vessate e umiliate», a ritmo di clip di piedi che ballano.

 

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È una storia di «maltrattamenti a 360 gradi durati 15 anni, non bisogna soffermarsi solo sugli episodi di violenza fisica», riassume l’avvocata Isabella Ferretti, che l’ha assistita. Morale: l’ex condannato a tre anni per stalking, maltrattamenti, danneggiamento e accesso abusivo alla sua mail.

 

Signora, il tribunale parla di «regole»: ovvero?

«Divieto di mangiare carne di cavallo al sangue, perché sennò ero un animale; divieto di bere il vin brulé o di mangiare lo zabaione d’inverno, perché era un atteggiamento da vecchi».

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La motivazione ne elenca una lunga serie.

«Anche la domenica dovevamo svegliarci presto e cambiarci, non potevamo stare in pigiama, perché era segno di pigrizia. E poi, era tutta una correzione».

 

[…]

Alla lunga, come reagì?

«Con il silenzio: per andare avanti ed evitare discussioni, anche un po’ brutte».

 

Sui soldi si litigava?

«Il budget di casa era deciso da lui, non si poteva sgarrare, neppure davanti a un tavolino dell’Ikea. Sforavamo quel maledetto budget».

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Com’è stato il processo?

«Una sofferenza. Il mese prima della sentenza, mi dicevo: chissà cosa dirà il giudice e come la prenderò io».

 

[…]

Aveva paura di non essere creduta?

«Avevo foto, mail, video, ma c’era anche uno spazio vuoto, in cui si poteva non darmi ragione: era una parte che mi faceva soffrire».

 

Perché ha aperto una pagina Instagram?

«Per aiutare le donne: non basta essere una vittima, bisogna avere tanta energia, riuscire a farsi capire, e non è facile, perché la sofferenza è qualcosa di personale. Bisogna insistere, a volte».

 

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Dal suo tono, non è tutto.

«Devi avere il coraggio di parlare in aula, quando il cuore ti batte forte: la paura non è quella di parlare, ma quella di non farsi capire».

 

[…]

La cosa più dolorosa?

«I tempi uccidono. Dalla prima denuncia alla sentenza di primo grado sono passati cinque anni, nonostante il codice rosso».

 

Uccidono non è solo una metafora, purtroppo.

«Spesso, dietro le storie di maltrattamenti c’è una data di morte, della donna. Dopo la denuncia, bisogna sapere che ci può essere senso di smarrimento. Si parla sempre di ghosting nelle relazioni, beh, anche lo Stato lo fa: dice di fare denuncia, ma poi ti abbandona, la pratica si perde tra labirinti della burocrazia».

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