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“MENTRE SUONAVO A RIMINI ARRIVARONO I CARABINIERI E MI PORTARONO VIA CON INDOSSO LA GIACCA DI PAILLETTES, NON MI ERO PRESENTATO ALLA CHIAMATA PER IL MILITARE” – DISERZIONI E PERCUSSIONI DI TULLIO DE PISCOPO, IL SIGNORE DELLA BATTERIA – “PER FORTUNA LA MIA FAMIGLIA NON AVEVA SOLDI, COSÌ HO POTUTO FARE QUELLO CHE VOLEVO IO” – IL FRATELLO MORTO, LE SCAZZOTTATE AL PORTO (“ERANO TUTTI ’MBRIACHI , VOLAVANO BICCHIERI, BOTTIGLIE”), LA PIZZA CON QUINCY JONES, IL NUEVO TANGO DI ASTOR PIAZZOLLA, I FARMACI PER IL SUPERGRUPPO DI PINO DANIELE, MINA CHE LO VIZIAVA CON I DOLCETTI E IL BOOM A SANREMO CON ‘ANDAMENTO LENTO’: “A ROMA PRESI UN TAXI PER INCONTRARE IL PRODUTTORE. IL TASSISTA: “CHE CI VUOLE FA’? QUI È TUTTO UN...” – VIDEO
Sandra Cesarale per il "Corriere della Sera" - Estratti
«Excalibur di Rimini: sto suonando con l’orchestra di Sergio Nanni, arrivano i carabinieri, mi portano via e mi mettono su un treno con indosso la giacca di paillettes, la mia divisa da musicista».
Che aveva combinato?
«Ero un disertore! Non mi ero presentato alla chiamata per il militare. Non mi diedero nemmeno il tempo di prendere i bagagli lasciati alla pensione, la mia batteria. Ai ragazzi del gruppo dissi: “Mandate tutto a casa”».
Ride Tullio De Piscopo, il signore della batteria, che da Porta Capuana, quartiere popolare di Napoli, ha conquistato il mondo e suonato con i più grandi. La sua vita la racconterà nel tour «I colori della musica», in partenza il 21 febbraio dalla Santeria Toscana a Milano. «Da ragazzino avevo un progetto: volevo diventare qualcosa, non qualcuno, perché ero già un numerino».
In principio fu?
«C’è chi nasce con la camicia e chi con le bacchette in mano. Appena ho aperto gli occhi ho visto tamburi, piattini, piatti e ho deciso cosa fare nella vita. Mio padre era un bravissimo batterista. E pure mio fratello maggiore Romeo. Aveva 21 anni e io 11 quando si accasciò sui piatti e morì mentre suonava al circolo della Nato di Bagnoli. Tutte le cose che faccio sono per me, ma soprattutto per lui perché sono sicuro che le avrebbe fatte meglio di me».
Papà il suo primo insegnante?
«Macché. Voleva che imparassi il contrabbasso. Mi mandò a lezione da un maestro, un suo collega, gratis perché non c’era una lira. Stava ai Quartieri Spagnoli, ultimo piano senza ascensore. E vabbé. “De Piscopo, lo strumento ce l’hai?”.
“No”. “Diglielo a papà che bisogna comprarlo”.
Davanti allo specchio, usavo la bacchetta della batteria come archetto e la scopa della mamma come contrabbasso. Per fortuna non avevamo soldi, così ho potuto fare quello che volevo io».
Perché era così contrario?
«Da piccolo ogni tanto mi nascondevo sotto al tavolo. Da lì una volta vidi papà piangere mentre si guardava in uno specchietto, gli erano venuti i primi capelli grigi e non aveva più lavoro. Aveva capito che era vecchio, chiamavano altri batteristi al posto suo. Era finita la sua epoca, era finito Peppe De Piscopo il saggio, ma continuò a esserlo da sindacalista, lottando per difendere gli orchestrali. Cambiò, si mise a suonare vibrafono, marimba e xilofono e pure il basso».
Almeno mamma era contenta?
«No. Per aiutare la famiglia faceva le iniezioni.
Con la penicillina non si poteva sgarrare l’orario, molte volte mi metteva un cappottino e alle 4 del mattino mi portava con lei».
tullio de piscopo james senese
Contro tutti iniziò giovanissimo.
«A 12, forse 13 anni. Avevo imparato il solfeggio da un altro collega di papà... sempre gratis. Il resto da solo. Suonavo con altri musicisti per i matrimoni, le festicciole. Noleggiavo batterie scassate. ’O surdato ’nnammurato era immancabile. Ci davano da mangiare, portavo via il pollo e conservavo i soldini».
Però il suo tesoro fu trovato.
«Da mia madre, in un focolaio in disuso. E furono botte da orbi: “Dove li hai presi?”. Son dovuti venire i musicisti a spiegare cosa faceva questo scugnizzo napoletano».
La scuola?
«Ho frequentato fino alle superiori, poi basta. Vedevo impazzire mio fratello Tonino che studiava ragioneria. Alle sette del mattino lo sentivo declamare: “Silvia, rimembri ancora”. Maronna d‘o Carmene! Tutto quel tempo io volevo dedicarlo alla musica».
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I suoi occhi di tigre e il talento non erano abbastanza?
«No, l’intervento divino è importante. Io sono stato baciato in fronte, tanti ragazzi del mio quartiere si sono persi dietro droghe e alcol. A me la musica m’ha salvato».
Nei club del porto più di una volta se l’è vista brutta.
«Che scazzottate! Erano tutti ’mbriachi , volavano bicchieri, bottiglie. Arrivavano anche le guardie americane e davano altre mazzate con i manganelli. Una volta sono scappato con la batteria e l’amplificatore del chitarrista: “ Acchiapp’ a chill ”. Un’altra mi sono nascosto nel guardaroba, fra i cappotti».
Prima della fama però, il bersagliere.
«Un mese e mezzo di Car a Roma, non mi facevano mai uscire dalla caserma sulla Tiburtina, piangevo. Ero contro le regole militari, le armi, non volevo sparare. “Ti punisco!”, urlarono. Obbedii. Pum . Centrai il bersaglio al primo colpo.
Per fortuna arrivò il maresciallo Imelio, capo della fanfara dello storico ottavo reggimento bersaglieri di Pordenone. Mi scelse perché con me c’era suo figlio che suonava la tromba. Finito il giuramento caricò 10, 15 di noi sul treno per Pordenone. All’entrata della caserma vidi un cartello: bersaglieri di corsa e automezzi al passo. Pensai: azz, accumminciamm’ bbuono ».
Un anno e mezzo di leva al freddo e al gelo.
«Nella camerata i vetri delle finestre erano rotti, avevamo la brina sulle coperte. Indossavamo tre-quattro maglie insieme e qualche volta mi riscaldavo nella stanza del sergente maggiore che aveva una stufetta. Nella fanfara non esiste la percussione e il maresciallo mi affidò il basso tuba. Si suonava di corsa, perché i bersaglieri corrono sempre».
Ha mai pensato di mollare tutto?
pino daniele tullio de piscopo
«Quando mi sono trasferito a Milano dall’Emilia-Romagna. Non riuscivo più a suonare per la gente che si divertiva a ballare. Arrivai con mia moglie che aveva 18 anni e incinta della nostra prima figlia. Era dura, non si trovava un appartamento, vivevamo in una pensione con la quale eravamo in debito di 500 lire al giorno.
Dissi a Dina: “Torna da tua madre a Sassuolo, vai lì a partorire”. Però non usciva fuori niente. Una sera chiamai mio padre: “ Nun ce ’a faccio cchiù torno a Napoli”. Lui: “Compra una bottiglia di vino rosso, bevilo e mettiti rint o lietto . Non venire qui, c’è la miseria”».
E lei?
«Comprai del vino che non era un granché, misi un disco di Maynard Ferguson. Mi svegliai con il fruscio della puntina del giradischi, bottiglia e bicchiere per terra e una forza da leone».
E arrivarono gli incontri con i grandi: Quincy Jones.
«Mi firmò tutti i suoi dischi. Poi fece portare delle pizze e rimanemmo in studio fino alle 5 del mattino».
Astor Piazzolla.
«Non sapevo chi fosse. Ero ignorante, ascoltavo il jazz, i Rolling Stones. Arrivò portando una scatola di legno con sopra i vecchi adesivi dei grand hotel dov’era stato e una borsa in pelle con dentro gli spartiti per ogni musicista. Aprii il mio, piano piano, come un giocatore di poker, c’era poca roba. Mi stranii. Lui: “Mi scusi, non ho mai usato la batteria nel tango, non esiste”. Io: “Allora cosa devo suonare?”. Tirò fuori dalla scatola il bandonenón e partì con le prime note di Libertango . Io attaccai il groove . Piazzolla: “Stop”. Pensai: “Mi manda a casa”. Invece disse: “ Esto es el nuevo tango ”».
Pino Daniele, fratello in blues.
«Era simpaticissimo, anche lui aveva avuto un’infanzia difficile, eravamo in simbiosi, non avevamo neanche bisogno di provare».
Lei c’era nell’81 nel famoso concerto di Pino a piazza del Plebiscito a Napoli.
«Come no! Io, Zurzolo, Amoruso, Senese, Esposito. Ci chiamavano il supergruppo, un nome che ha fatto male a tanti altri musicisti che avevano suonato con Pino prima di noi».
Era il batterista e il farmacista della band.
«Mi sedevo in fondo al pullman con la mia borsa Diadora piena di medicinali e venivano da me per farsi curare. Usavo molto il carbone vegetale perché l’esofagite era il nostro male».
Mina.
«Registravamo a Milano, nella Basilica, una vecchia chiesa sconsacrata che era della Pdu.
Stava in regia e mentre noi suonavamo, avevamo lei in cuffia che cantava. Non lo faceva quasi mai nessuno, a volte gli artisti non si presentavano nemmeno in studio. Lei era sempre presente e gentilissima, ci viziava portando i dolcetti».
Andò a Sanremo con «Andamento lento».
«Da me ribattezzato “Santo andamento lento” perché con i soldi delle vendite mi comprai casa. Non volevo partecipare al Festival, mi convinse Marco Ravera, figlio del patron Gianni. Volevo il pezzo dei fratelli Capuano, bello però mancavano titolo e testo. Avevo 36 ore per consegnare la canzone alla commissione. A Roma presi un taxi per incontrare il produttore. Fatti pochi metri siamo rimasti bloccati nel traffico. Ero disperato: “Sono in ritardo!”. Il tassista: “Che ci vuole fa’? Qui è tutto un andamento lento”».
(...)