“CARTIER BRESSON DICEVA CHE UN BRAVO FOTOGRAFO FA UNA FOTO BUONA ALL'ANNO. IO SONO STATO PIU' FORTUNATO” – VITA, OPERE E SCATTI DI GIANNI BERENGO GARDIN: "IN SVIZZERA MI MISERO A FARE IL BAGNINO SU UN LAGO MA NON SAPEVO NUOTARE, LONGANESI SCOPRÌ I MIEI LAVORI PER CASO AL BAR, MA ERA TROPPO A DESTRA PER ME” – LA CONTESTAZIONE DELLA BIENNALE, LE FOTO DEI MANICOMI, LA SCELTA DEL BIANCO E NERO: “STAMPARE A COLORI MI DISTRAEVA, MI SOFFERMAVO PIÙ SUI VESTITI CHE SUI VOLTI DELLE PERSONE” - "CON PHOTOSHOP E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE LE FOTO SONO DIVENTATE IMMAGINI: NULLA DI MALE, MA NON CONFONDIAMOLE CON LE MIE" - IL LIBRO
Filippo Maria Battaglia per "la Stampa" - Estratti
Nella mansarda milanese abitata da Gianni Berengo Gardin c'è una parete su cui sono appesi centinaia di utensili.
(...) Avendo sempre fotografato in bianco e nero, non mi piacciono i colori misti», spiega oggi a 94 anni, mentre si china per scansare una trave.
Con quegli attrezzi, Berengo Gardin ha costruito un'infinità di modellini di aerei, treni e velieri che affollano questo sottotetto insieme a migliaia di libri e a uno sterminato archivio con oltre settant'anni di scatti.
Si ricorda la sua prima foto?
«Era il '43. Ci eravamo trasferiti qualche anno prima a Roma dalla Liguria. Subito dopo l'occupazione, i tedeschi intimarono ai civili di consegnare le macchine fotografiche. Mia madre ne aveva una, a soffietto. Sfidando quel divieto, la presi, comprai due rullini e andai in giro per la città. Fu allora che intuii il potere di una foto».
Aveva già in mente di fare il fotografo?
«No, ci volle ancora tempo. Durante la guerra mio padre venne catturato in India. Tornò col fegato e i polmoni a pezzi, e ovviamente senza lavoro: andammo così a Venezia, dove le mie zie gestivano un negozio di perle. Iniziai a frequentare qualche circolo fotografico amatoriale ma, dopo che ebbi finito a fatica il liceo, papà disse: "O fai l'università sul serio o ti arrangi"».
E lei?
«Mi arrangiai. Andai a lavorare in un night svizzero su un lago. Mi misero a fare il bagnino, ma non sapevo nuotare. Un giorno una signora fu aggredita in acqua da alcuni cigni. Mentre tutti urlavano "bagnino!", mi nascosi dentro una cabina. Per fortuna non accadde nulla di grave».
In Svizzera restò poco: nel '53 emigrò a Parigi.
«Lavoravo dalle sei di mattina a mezzogiorno alla reception dell'Hotel de Paris. Due anni di pomeriggi liberi: fu fantastico. Conobbi i più grandi fotografi, da Robert Doisneau a Daniel Masclet, ma anche filosofi come Jean-Paul Sartre».
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Nella sua autobiografia, In parole povere, racconta di essere tornato a Venezia carico di valigie piene di libri di fotografia.
«Sì, anche se chi mi fece scoprire i grandi reporter fu uno zio americano, Fritz.
Su consiglio del suo amico Cornell Capa, il fratello di Robert, mi mandò i numeri di Life. Ricordo ancora l'emozione quando li sfogliai per la prima volta. Fu una folgorazione».
Di lì a breve, cominciò a collaborare con le grandi riviste.
«Iniziai per caso. Stavo mostrando delle foto a un critico in un bar di Milano, quando un signore alle nostre spalle prese a sbirciare. Prima che mi spazientissi, disse: "Venga al mio giornale, gliene compro qualcuna".
Era Leo Longanesi. Cominciò a pubblicarle sul Borghese, ma era troppo a destra per me. Quando glielo confessai, mi suggerì di andare al Mondo di Mario Pannunzio. Capii che potevo diventare un professionista».
Guadagnava?
«Il problema era proprio quello: farsi pagare. Arrivavo in treno il pomeriggio a Roma, ripartivo la mattina dopo per Milano. E per risparmiare, dormivo sulle panchine della stazione».
gianni berengo gardin - cose mai viste
Nel '68 era a Venezia durante la contestazione della Biennale: uno dei suoi scatti più noti ritrae il poliziotto che alza un manganello di fronte al suo obiettivo.
«La Celere stava caricando i dimostranti in piazza San Marco. Venni rincorso da un agente: mentre scappavo, trattenni la macchina e fotografai alla cieca. Riuscii a scattare, ma lui mi fracassò il pollice col manganello. Ho sempre odiato qualsiasi forma di violenza».
Fu per questo che poco dopo fotografò i manicomi di mezza Italia?
«No, lì il merito fu della mia amica Carla Cerati: era stata incaricata di andare a Gorizia per ritrarre Franco Basaglia. Mi offrì di accompagnarla. Risposi: "Volentieri, ma guarda che fotografo anch'io". Appena vide gli scatti, Basaglia si entusiasmò e ci diede i contatti di altre strutture».
Ne venne fuori Morire di classe, un libro di culto di quegli anni.
«Prepararlo non fu facile. Al manicomio femminile di Firenze riuscimmo a entrare solo per un paio di ore grazie alla complicità di alcuni medici. Le pazienti erano scalze, sporche, strette nelle camicie di forza. Ne uscimmo così sconvolti che in stazione prendemmo il primo treno senza guardare dove andava. E, anziché a Milano, ci ritrovammo ad Arezzo».
A Venezia ha dedicato molti libri. Il più noto, Venise des saisons, era accompagnato dai testi di Giorgio Bassani.
«Lo conobbi al cimitero ebraico di Ferrara. Poco dopo mi mandò a fotografare una sua amica, nobildonna, che abitava in Laguna. Lo considerai un atto di stima».
Raccontò anche Luzzara, il paese di Cesare Zavattini nella Bassa Reggiana già ritratto nel dopoguerra da un altro grande fotografo, Paul Strand.
«E fu lì che iniziai a bere qualche bicchiere, prima prendevo solo Coca-Cola. Zavattini faceva strani intrugli alcolici. Aveva più di settant'anni ma restava a chiacchierare in piazza con gli studenti fino a notte inoltrata».
Anche quegli scatti erano in bianco e nero.
«Quando iniziai, tutti i grandi, da Cartier-Bresson in giù, facevano così. Poi, a poco a poco, divenne una scelta: stampare a colori mi distraeva, mi soffermavo più sui vestiti che sui volti delle persone».
Nel suo archivio ha due milioni di negativi.
«Proprio Cartier-Bresson diceva che un bravo fotografo fa una foto buona all'anno.
Ecco: io, forse, sono stato un po' più fortunato».
Ma come si riconosce una buona foto?
«Me lo insegnò il mio amico Ugo Mulas. Le belle foto, anche se ben composte, spesso non dicono nulla. Sono le buone quelle che contano: le uniche che, al netto di certe sbavature, possono raccontare qualcosa».
Ha detto: «Non voglio passare per un artista».
«Sono solo un registratore di ciò che vedo. La fotografia è fatta sempre dai fotografati, il fotografo decide soltanto il momento. Per questo non bisogna mai scattare a mitraglia e per questo non ho mai usato il digitale».
Qual è il destino di questo mestiere?
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«Nessuno. Con Photoshop e l'Intelligenza Artificiale le foto sono diventate immagini.
Non ho nulla in contrario, purché non le si confonda. Fotografare era un'altra cosa».
Ha paura della morte?
«Non della morte in sé, ma di abbandonare, oltre ai miei affetti, i miei libri, i miei attrezzi, i miei oggetti. Ho il terrore che diventino roba da rigattieri e bric-à-brac. Ecco: più che la mia fine, mi preoccupa questa dispersione».
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