IL CINEMA DEI GIUSTI - “STILL ALICE” È UN FILM TRISTISSIMO MA NON CUPO SULL’ALZHEIMER. E VARRÀ ANCHE L’OSCAR PER LA GRANDISSIMA JULIANNE MOORE

Un melò familiare di grande costruzione teatrale, un’opera estrema, durissma, ma dove la sofferenza non è mai esibita, tutto si concentra sulla lotta della protagonista nel perdere poco alla volta parti di sé, della propria storia. I maschi, a cominciare dal marito Baldwin, sono un po’ assenti, spettatori...

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Marco Giusti per Dagospia

 

Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland

 

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Come si chiama la mia prima figlia? Dove abito? Chi sono? Tanto lo sappiamo tutti che Julianne Moore come malata di Alzheimer, dopo aver vinto già il Golden Globe e qualsiasi altro premio, vincerà anche l’Oscar. E’ giusto. Perché in questo tristissimo, ma concentrato, sentito e per nulla cupo Still Alice, scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland al loro quinto film, e tratto dal romanzo di Lisa Genova, non è solo bravissima, ma riesce a costruire ogni scena facendosi sentire perfettamente il progredire della sua malattia e il distacco sempre maggiore da se stessa.

 

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E, contemporaneamente, sentiamo il suo aggrapparsi alla vita e all’amore della sua famiglia per non perdere la sua più piccola memoria mentre tutto le sta crollando attorno. Julianne Moore lavora di piccoli sguardi, di lievi toni della voce, di movimento delle mani. Con la sua malattia, un Alzheimer genetico e precoce, Alice coinvolge tragicamente anche le figlie, Anna, Kate Boswoth, che si scopre positiva, e Lydia, una notevole Kristen Stewart, che non vuole sapere se è malata o no, mentre il figlio maschio risulta negativo.

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Il fatto che Alice sia professoressa di Linguistica alla Columbia University, e abbia fatto della comunicazione il lavoro di tutta una vita, complica le cose, visto che si costruisce delle difese sofisticate per combattere la malattia che rendono meno chiara la sua diagnosi e il suo percorso. E il fatto che sua figlia Lydia sia attrice, studia testi come “Angels in America” di Tony Kushner, ma anche “Tre sorelle” di Cechov, e che abbia con la madre un rapporto più forte dell’altra sorella, Anna, che ha risposto alla sicurezza della malattia facendosi mettere incinta, ci porta a un mélo familiare di grande costruzione teatrale.

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I registi citano anche il Tokyo Monogatari di Ozu e lavorano sulle riprese di conseguenza, imponendo al direttore della fotografia, il francese Denis Lenoir (Carlos), un punto di vista morale per raccontare ogni scena, che tolga inutile enfasi alla situazione e lasci in qualche modo libere le attrici di esprimersi. Ma si deve esser sentito sul set, 23 giorni, anche il peso della malattia, la SLA, che ha sfortunatamente colpito a inizio della lavorazione uno dei due registi, Richard Glatzer, e che lo ha portato a perdere la voce e a non potersi muovere alla fine delle riprese.

 

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Questo ha reso il film una specie di opera estrema, durissima, ma dove la sofferenza non è mai esibita, tutto si concentra sulla lotta interna alla protagonista nel perdere poco alla volta parti di sé e della propria storia. I maschi, a cominciare da Alec Bladwin, che interpreta il marito, sono come un po’ assenti, spettatori della tragedia.

 

Ovvio che Julianne Moore con la sua Alice Howland domini ogni inquadratura del film. Al punto che ci sembra di sentire le sue stesse sensazioni e percepiamo lo stesso terrore che hanno i suoi cari mentre la stanno perdendo. Non so se è un grande film. Certo Julianne Moore è grandissima. In sala dal 22 gennaio.

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