DIS-PAR CONDICIO – I VARI GASPARRI POSSONO INSULTARE CON DIRITTO DI SMENTITA E TUTTO FINISCE LÌ, MA PRESTO I GIORNALI NON POTRANNO PIÙ SCRIVERE NULLA CHE NON SIA “INTRINSECAMENTE VERO” – NON SOLO, MA DOVRANNO PUBBLICARE SMENTITE SENZA NEPPURE REPLICARE -

Gli stessi deputati che hanno massima libertà di parola e si barricano dietro l’insindacabilità parlamentare stanno per approvare definitivamente una legge che impone limiti pesantissimi alla libertà di stampa. In passato, decine di querele minacciate ai giornali sono regolarmente finite in nulla ed erano solo forme di pressione

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Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”

 

«Gasparri è trans?» Se osassimo lanciare sul serio una domanda simile, che buttiamo lì solo per una forzatura polemica (alla larga da queste fanghiglie!) il senatore forzista darebbe querela. Giustamente. Potremmo rispondere, come ha fatto lui prima di scusarsi dopo le malignità su Greta e Vanessa, che ci sono decine di siti che maramaldeggiano malevole su una sua vecchia battuta di spirito. E lui, a ragione, ci rinfaccerebbe che un giornale serio non raccoglie web-pettegolezzi. 
 

tweet gasparri greta vanessa e il sesso con i guerriglieri tweet gasparri greta vanessa e il sesso con i guerriglieri

C’è però una differenza: lui, per il suo tweet indecoroso sulle ragazze sequestrate in Siria, potrà invocare se denunciato l’«insindacabilità parlamentare» che ha già salvato troppi deputati e senatori incontinenti nell’ingiuria. Un giornale no. Anzi: anche la nuova legge già passata in Senato e ora in discussione alla Camera e spacciata come un’apertura alla libertà di critica perché sopprime il carcere per i cronisti (come chiedeva l’Europa) non consente di citare a sostegno alcuna «verità» pubblicata da altri. Giusto. Il fatto deve essere vero. Punto. 

 

giancarlo galan giancarlo galan

«Je suis Charlie»,hanno ripetuto dopo la strage di Parigi centinaia di parlamentari. Ed è venuto giù un diluvio di pensosi commenti sulla centralità della libertà d’opinione. Tutta. Anche quella estrema. Cuore dei valori fondanti di Francia ed Europa. Evviva. In parallelo, però, la nuova legge andava avanti alla Camera per mettere un bavaglino alla stampa in Italia. 
 

Volete un esempio? Massimo Marino De Caro, messo da Giancarlo Galan alla direzione della biblioteca dei Girolamini, da lui saccheggiata, reagì alle accuse d’aver barato sulla sua laurea (falsa), sulla docenza universitaria a Verona (falsa) e sulla discendenza dai principi di Lampedusa (falsa) minacciando fuoco e fiamme. Tanto più per le denunce, mosse per primo da Tomaso Montanari, di movimenti notturni di camioncini che portavano via volumi di valore inestimabile. 
 

BIBLIOTECA GIROLAMINI A NAPOLI BIBLIOTECA GIROLAMINI A NAPOLI

È stato condannato in primo e secondo grado a sette anni di carcere. Ma il giorno dopo la pubblicazione del primo articolo sul Corriere, al quale reagì con raffiche di telefonate sdegnate e la minaccia («ho incaricato lo studio legale Previti di sporgere querela») di cause giudiziarie, avrebbe avuto diritto con la legge nuova a vedersi pubblicare una lettera sana sana, senza contraddittorio, dove poter ribadire tutte le frottole smentite dall’università di Siena, da quella di Verona, dal vero principe di Lampedusa, dalle prime indagini giudiziarie… 
 

Nicola Di Girolamo Nicola Di Girolamo

Secondo le nuove norme infatti, spiega l’avvocato Caterina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione, non basterà più pubblicare la rettifica «in testa di pagina» magari con una risposta punto per punto. Domani, se passa la legge, «dovrà farlo anche “senza commento, senza risposta e senza titolo”, indicando perfino il nome del giornalista “rettificato”». Anche se quel giornalista avesse totalmente ragione. E lo potesse dimostrare carte alla mano. 
 

Ma davvero, davanti a casi così, c’è chi in Parlamento, per dispetto verso certi giornali, certe inchieste, certi articoli fastidiosi o magari spesso anche sbagliati, se la sente di votare una regola che avrebbe consentito furenti smentite senza repliche al senatore Nicola Di Girolamo poi costretto alle dimissioni e condannato a cinque anni per riciclaggio e con lui a frotte di «colletti bianchi» colpiti da sentenze spesso pesantissime dopo aver vantato la loro rispettabilità? 
 

BOSSI A CALALZO DI CADORE BOSSI A CALALZO DI CADORE

Abbiamo preso, negli anni, querele stupefacenti. Il «prof. avv.» Paolo Bonaccorsi, assessore regionale all’urbanistica calabrese, ruolo fondamentale perché pareva si facesse di lì a poco il ponte di Messina, fu beccato perché aveva presentato a una società delle Ferrovie dello Stato un curriculum strabiliante. Dove campeggiavano una docenza alla Luiss e l’appartenenza all’albo degli avvocati di Milano con tanto di fotocopia della pagina 80 dell’Albo 1997 dove il suo nome (residenza in Corso XXII Marzo 57) campeggiava (con la «c»: cassazionista) tra Bonaccorsi Francesco e Bonafè Mario.

 

Macché: alla Luiss non risultava («Il signor Bonaccorsi non ha mai ricoperto alcun tipo di incarico…») e un piccolo controllo sull’albo originale aveva fatto saltar fuori che la fotocopia era stata taroccata. Immediata la risposta dell’assessore affidata alle agenzie: «Non mi resta che querelare». Tutto archiviato. Ma l’avvocato, nonostante avessimo avuto ragione, dovette pagarlo il Corriere . 
 

E ricordate di Claudio Regis, ex deputato del Carroccio in gioventù esperto di elettronica e perciò soprannominato el Valvola , nominato per meriti leghisti ai vertici dell’Enea dove si prese il lusso di bacchettare Carlo Rubbia? Scriveva sulla rivista online Kosmos firmandosi «Claudio Regis, ingegnere Enea», si compiaceva che Berlusconi l’avesse chiamato «ingegnere» nel decreto di nomina e si spinse a firmarsi così perfino in un atto giudiziario: «ing. Regis». Quando il Corriere raccontò che non era così, come del resto lui stesso aveva confessato ad Economy aggiungendo che però si considerava «comunque ingegnere a tutti gli effetti», minacciò sfracelli e fece querela. Era vera la denuncia, disse la magistratura. Ma l’avvocato, nonostante avessimo avuto ragione, dovette pagarlo il Corriere . 
 

Marino Massimo De Caro Marino Massimo De Caro

Così è andata con il giudice Diego Curtò, furente per il «tono sproporzionatamente scandalizzato» con cui era stata descritta la sua vicenda, che forse i lettori ricordano per i soldi buttati nel cassonetto e che pretese una precisazione indimenticabile: «i 3 anni e 6 mesi di carcere gli sono stati inflitti dalla Corte di appello di Brescia non per corruzione in atti giudiziari ma per corruzione semplice». E ancora con Totò Cuffaro, che querelò perché non si riconosceva nella definizione di politico «clientelare». E Alberto Monaci, uomo forte della Dc senese, invelenito perché avevamo raccontato come un fantastico appartamento a due passi da Piazza del Campo svenduto dal partito dopo il tracollo era finito, guarda caso, alla sua compagna: «Querelo!» 
 

E potremmo avanti andare avanti per ore, a raccontare di querele pretestuose, querele fatte solo per spingere il cronista a non occuparsi più di questo o quel tizio, querele intimidatorie. Per non dire di letteracce violente destinate a essere sepolte sotto il peso delle sentenze di condanna (altrui) e assolutorie (nostre). Troppo facile, buttar lì una querela o una lettera di smentita. Sono state scritte cose false? Ben venga la pena. Purché non sia così pesante economicamente da ammazzare i piccoli giornali. Ma quanto al diritto alla smentita «a prescindere», per dirla con Totò, è il caso di andare cauti. Molto cauti. 

 

 

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