Margot Mifflin “Corpi sovversivi” Ultra pp. 192 € 29,50
Bruno Ventavoli per La Stampa
Nel 1882 una fanciulla, Nora Hildebrandt, debuttò nel circo con una novità che richiamava folle. Non sapeva ingoiare spade, non era barbuta, né «cannone». Si mostrava semplicemente coperta da 365 tatuaggi, raccontando di essere stata rapita e conciata così dagli indiani di Toro seduto.
Naturalmente era una baggianata (l’aveva decorata il marito), ma la crudeltà selvaggia serviva a condire una doppia trasgressione: il suo corpo discinto unito al tabù del tatuaggio. Margot Mifflin parte dalla quella prima professionista per tracciare, in Corpi sovversivi , la storia socioculturale del tatuaggio femminile attraverso personaggi, aneddoti, fotografie vintage, con piglio militante.
Perché le eroine che usavano nomi esotici, volti da dive del muto, pelli illustrate, per esibirsi come fenomeni da baraccone, ebbero lo stesso coraggio, la stessa irriverenza rivoluzionaria delle prime suffragette e delle protofemministe. Si appropriarono di una pratica vietata per secoli in Occidente da papi, teologi, sovrani - dominio tutt’al più di criminali lombrosiani -, e ne fecero strumento di bellezza e autonomia, «trasgredendo gli ideali di purezza e decoro femminile, scostandoseli di dosso come strati di indumenti intimi inamidati».
Betty Broadbent, una delle più celebri tatuate del Novecento, smise ad esempio il mestiere onorevole di baby sitter a diciassette anni per stupire fiere e angiporti con un Pancho Villa sulla gamba sinistra, Lindbergh sulla destra, una madonna sulla schiena e decine di altre icone della modernità sparse tra tette e natiche. Poi, nel ’39, alzò il livello della provocazione presentandosi a Miss America, nella prima edizione teletrasmessa.
Ovviamente non ebbe chance con i canoni della bellezza whasp, ma «entrò» in tutte le case superborghesi della nazione sdoganando ulteriormente un look aggressivo e trasgressivo per le ragazze che volevano essere carine. All’inizio del secolo, intanto, aveva cominciato a esercitare la reietta professione Maud Wagner, la prima tatuatrice donna, allieva di Alfred South, un tale che secondo la leggenda aveva tracciato una tigre in lotta con un pitone sulla regina Vittoria.
Faceva a pugni con i perdigiorno che entravano nella sua bottega per rimediare una palpatina, ma incideva anche cuoricini con il nome dell’innamorato sulla virginea epidermide di giovani fidanzate sempre più numerose nel chiedere quei sigilli d’amore indelebili. La sua collega Mildred Hull, ex ballerina di burlesque, durante il new deal rooseveltiano diventò addirittura ricca tatuando codici fiscali su dieci-quindici onesti contribuenti al giorno timorosi di scordarselo.
Da allora, di inchiostro sotto la pelle femminile ne è scorso a fiumi. Su per gli anni 60-70 della controcultura hippie, delle byker, delle cantanti punk e delle spogliarelliste. Fino a diventare raffinata bodyart, o addirittura terapia, per camuffare menomazioni chirurgiche, traumi del corpo e dell’animo, lasciati da compagni violenti.
Oggi il tatuaggio per la donna è diventato normale, vezzoso quanto il maquillage o la lingerie. In percentuale, anzi, le signore han superato i maschi. Attrici, manager, casalinghe, nessuna vuol sottrarsi al battesimo della macchinetta. E le celebrità ostentano schiene che paiono quadri viventi sui red carpet.
Per seminare scandalo o curiosità, occorre ben altro, come la modella Shauna Taylor che si è fatta lasciare una farfallina di Demien Hirst sul pube con gran battage nella Londra superchic, o Belen che scoprì un altro lepidotterino, scendendo le scale di San Remo con calcolata nonchalance.
La trasgressione di un tempo è diventata trend. Ma nell’era delle milf, delle cougar, delle protesi siliconiche, il rischio è che l’estroversione diventi obbligo più che scelta. Così come nelle donne vittoriane ci si aspettava una repressione della sessualità, quelle odierne paiono obbligate a esprimerla con chiassosa esuberanza. E nel caso dei tatuaggi qualche guaio si presenta se una cambia idea. Cancellarli può essere più complicato che sbarazzarsi di un semplice marito noioso.
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