LA “SUBURRA” DI SOLLIMA: "MAFIA CAPITALE NON È STATA UNO SCANDALO. SI SAPEVA TUTTO. NOI CI STAVAMO GIÀ FACENDO UN FILM. INCREDIBILE! - ROMA È UNA CITTA' MULTISTRATO. LA SFOGLI E SCOPRI I LEGAMI TRA MONDI CHE ALLE VOLTE TRACIMANO E ALLAGANO LA CITTÀ”
Piero Melati per “Il Venerdì di Repubblica”
I numeri non ingannano. Romanzo criminale-La serie ha sbancato in tutto il mondo. Sua sorella Gomorrah (all’estero ci mettono la h) è stata venduta in oltre 143 Paesi. E il suo esordio, Acab (All cops are bastards), è stato considerato il The Shield italiano (l’acclamatissima serie americana con uno sbirro in stile «cattivissimo me»).
Ora, nel secondo film, Suburra, il regista si cala nella Terra di Mezzo. Dietro maschere di celluloide, ci sono i veri protagonisti dell’inchiesta Mafia Capitale: Carminati, Buzzi, Casamonica, Fasciani, Senese.
Un lavoro dove ha buttato dentro tutto il suo passato remoto di cameraman in zone di guerra, quello prossimo dei successi recenti, e infine l’eterno presente di figlio d’arte: Sergio, scomparso nel luglio scorso a 94 anni, è stato l’inventore di Sandokan, del Corsaro Nero e degli «spaghetti western» alla Tomas Milian. «Ho imparato tutto da mio padre» dice.
La fortuna te la devi chiamare. Stefano Sollima, romano classe 1966, aveva già cominciato a lavorare al progetto quando Suburra-Il romanzo, da cui è liberamente tratto, doveva ancora andare in libreria. Leggeva le bozze ed era già deciso a farne un film. Poi è esplosa l’inchiesta giudiziaria: una fotocopia dell’affresco che De Cataldo e Bonini avevano romanzato. Fortuna, certo. Ma sicuro che la fortuna può bastare?
Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Lo insegnava Sergio Leone. Ma ora Sollima doveva misurarsi con più profonde regole del gioco. Quando un uomo con la pistola incontra un uomo senza pistola, quello con la pistola è un uomo morto. Questo è Suburra.
Una latrina che tiene in equilibrio potere e strada, inventata duemila anni fa nell’antica Roma, per fare incontrare potenti e criminali, e che da sempre governa la Terra di Mezzo. Dalla strada è tratta la violenza, ma i meccanismi del potere la rimodellano. In questo regno, un uomo disarmato può essere letale quanto un killer. Come raccontarla questa storia? Non è facile.
A meno che non si voglia cadere nel trittico che Sollima odia: retorica, demagogia, moralismo. Così lui ha scelto un cast maschile eccellente (Piefrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi), un duo femminile che buca lo schermo (Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti), tra i migliori sceneggiatori sulla piazza (Sandro Petraglia, Stefano Rulli) e ha fatto riscrivere la sceneggiatura undici volte.
Undici volte? Non è normale...
«Dice? Io lo trovo uno standard. Anche le ultime due puntate di Gomorra le abbiamo riscritte dieci volte. Testo e attori sono i due cardini senza i quali non si può fare un film».
Le avranno voluto bene...
«Mi dicevano: non c’è problema, tanto quello che vuoi lo abbiamo già scritto da qualche parte».
Ha detto: questo film è espressione di un «realismo di genere». Rilanciato dieci anni fa da Romanzo criminale.
«Il genere era stato completamente accantonato. Recuperarlo è stato quasi un miracolo. Ma la nostra non è stata una scommessa al buio. Il genere, in Italia, si era sempre fatto. Aveva reso internazionale il nostro cinema.
Anzi, era il sistema “cinema italiano” che vendeva all’estero. E non parlo solo di Tarantino. Era stato buttato via per motivi misteriosi. La vera domanda è questa: perché mai si era smesso di farlo? Si è dovuto aspettare l’avvento di Sky per tornare sui nostri passi».
Raccontare la realtà ma, lei insiste, senza retorica e moralismo. Che vuol dire?
«Ho messo le mani avanti».
Ha fatto bene. Le diranno di nuovo che ci sono solo cattivi, nei suoi film.
«Il pubblico è molto più evoluto. Sarà lui a tracciare i confini morali. Perché togliergli questo piacere? Chi racconta, invece, sta con i personaggi. Non ha filtri di giudizio. Entra nel loro mondo. A me interessa cosa frulla loro nella testa. I buoni servono nella realtà, non nelle fiction».
Però lei aggiunge: la realtà che narriamo è di una «spaventosa pericolosità».
«Il titolo la prende molto da lontano. C’è un filo che collega Roma di oggi a Roma antica. Si perpetua lo stesso meccanismo di allora, la Suburra. Roma è una città multistrato. La sfogli e scopri i collegamenti tra mondi. Tante volte questi collegamenti restano nell’ombra. Altre volte tracimano fuori. E allagano la città».
L’azione si svolge in sette giorni. Dentro un triangolo: Vaticano, politica, strada.
«Sembrano universi distanti. Invece sono un unico organismo. In quel campo le varie forze si controbilanciano e si uniscono. E sono prossime a noi».
Quello che inquieta è proprio la prossimità. Gli assassini bussano alla porta.
«Per svelare questo meccanismo va compreso anzitutto come può essere narrato. Ci può essere uno sguardo diretto e “realista”, quasi documentale, oppure si può usare il genere, come negli anni 70. Il crimine, le sparatorie, gli incendi, nel film sono puro intrattenimento. Ma è proprio in questo ambito che si riversa la riflessione. Non racconti il tema direttamente, facendo denuncia sociale. Ma intrattieni e fai riflettere. Sono due cose differenti. La meraviglia del genere è questa: leggerezza di intenti, ma riflessione. Uno per tutti: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970, Elio Petri. È un giallo, ma racconta un mondo, e lo fa attraverso il genere».
A proposito di genere, se le dico Claudio Caligari, il regista appena scomparso di Non essere cattivo?
«Un genio. Ha firmato tre capolavori. Il cinema lo ha ignorato. Uno scandalo».
Come è cambiata Roma da Romanzo criminale a Suburra?
«Stessa aria cupa. Ma ieri c’erano ideali. Tanta violenza, ma anche sogni. In Suburra l’unico che ha un sogno, in fondo, è il personaggio di “Numero Otto”».
Sogna una speculazione che trasformerebbe Ostia in Las Vegas.
«Sì. “Numero otto” è matto come un cavallo, ma vive a Ostia e sogna di costruire una città più bella. Anche lui vive in un mondo mutato: non c’è più distinzione tra la strada, il criminale, e certi ambiti finanziari e politici».
Usano persino lo stesso linguaggio. Il Samurai, interpretato da Amendola, rappresenta questa nuova galassia.
«Ci tenevo a raccontarlo come un travet, un uomo di relazione. È lui che mischia i mondi. Mafia Capitale non è stata uno scandalo. Si sapeva tutto già prima dell’inchiesta. Anzi: non è che si sapeva, di più. Noi ci stavamo già facendo un film. Incredibile».
Una mutazione genetica.
«Spesso anche miserabile. Non è che i criminali vanno tutti ai Caraibi, magari ci pagano solo le spese. Ma sono tutti corruttibili. E noi ci siamo rassegnati. Questo mi sgomenta».
Nel film c’è un incidente stradale provocato. Chiedono al Samurai: lo hai ucciso tu? E lui: no, l’ha ucciso Roma.
«Il criminale non si sporca più le mani, non ha bisogno nemmeno di uccidere».
Si vede una Roma apocalittica, dove piove sempre. Come in Blade Runner.
«Non è l’apocalisse. È una banalissima bomba d’acqua. La città si allaga sempre, appena piove. E sembra davvero apocalittica e soprannaturale».
Ha utilizzato tanti campi larghi. E Roma non è la solita location già vista.
«Volevo sempre sia il personaggio che il suo mondo. Siamo dentro un gangster-movie che racconta la fine di un’era».