La Corneide - Giovanni De Gamerra
Dagoreport
Certo, ci vuole un po’ di tempo perché la “Divina Commedia” della cornificazione è uno dei poemi più prolissi della storia umana: sette volumi, più di tremila pagine. Del resto, l’obiettivo che il povero autore si era posto era davvero esteso: raccontare le corna dall’antichità ai suoi tempi. Una materia vasta, converrete, che il poeta ha affrontato con il coraggio di un dottorando al quale si affida la tesi “Brevi cenni sull’universo”.
La Corneide - Giovanni De Gamerra
“La Corneide” è un poema eroticomico (altro che trenta, quaranta, cinquanta sfumature…) diviso in 71 canti ciascuno composto da più di 800 ottave. Occhio croce 450-500mila versi che raccontano cornificazioni varie, dall’antichità (prediletta) in poi. Si parte dagli dei o, almeno, dalla mitologia per arrivare sino ai Frescobaldi passando per Elena di Troia, Ulisse, Cicerone, Moliere, la regina Elisabetta I, i re di Francia, Anna Bolena… “Tutti gabbati”, come dice Falstaff, ovvero tutti cornificati o cornificanti. E’ lo stesso.
A scriverlo, è il Dante delle corna, ovvero Giovanni de Gamerra, uno dei librettisti di Mozart (“Lucio Silla”, 1772), dunque sodale del pensiero del salisburghino alla “Così fan tutte”. De Gamerra, un mezzo avventuriero nato a Livorno, fu mandato a studiare in seminario e a di diciassette anni già si firmava abate. Dal 1765 visse a Milano ben protetto dalle élite – queste non sbagliano mai -, dal conte Firmian, al Beccaria ai Serbelloni, per i quali scrisse, nel 1770, i “Solitari” (vietato alludere) una tragedia domestica in pantomima.
Proprio l’appoggio della duchessa Serbelloni gli consentì di entrare alla corte di Vienna, dove era poeta cesareo il Metastasio. Fu allora che, nel 1773, fu stampato il primo dei sette volumi della “Corneide”: non sappiamo chi davvero lo lesse (forse Feerico il Grande e il librettista Calzabigi), ma c’è una testimonianza secondo la quale l’opera divertì l’ottantenne Voltaire, il cui consenso spinse l'autore a comporre gli altri sei volumi.
Nella Corneide l’autore si trasferisce in sogno in una terra ai cui lidi approdano torme di cornuti da tutto l’universo e di tutti i tempi: e qui ti voglio vedere dove metterli! Tanti, come direbbe Eliot “ch'io non avrei creduto che morte tantin'avesse disfatti”. In questa Valle di Giosafat sono tutti uguali, perché come la morte anche le corna democraticamente livellano: umili e potenti sono uniti dalla comune condizione di becchi.
Con intonazione dantesche, il poeta incontra Euripide, che sarebbe quello che Virgilio è per Dante, ovvero colui che lo guida nel campo eliso delle corna. Un territorio abitato dai becchi a partire dall'antichità classica, che offre spunto a vicende boccaccesche imperniate sull'insaziabilità femminile e gli adulteri più ingegnosi, proprio come nei testi che il librettista italiano Lorenzo Da Ponte predispose per l’immortale Mozart. Che certo fece becca la moglie con la di lei sorella. Ma questo de Gamerra lo risparmia; si sa, gli amici.
La storia più accreditata sulla trasmissione del termine cornuti, infine, parrebbe comunque questa. Il re di Francia invitava i nobili al castello per una battuta di caccia. Ma il mattino dopo, mentre lor signori si sbattevano con i cervi, lui si sbatteva le signore rimaste in stanza. Sta di fatto che di pomeriggio i nostri maschi eroi tornavano carichi dei palchi delle bestiole come trofei. Il mattino dopo, uscendo dalle porte del castello, di tanti trofei si fregiavano e i paesani, vedendoli passare con questi palchi di corna in testa o in mano , dicevano: “Ecco i cornuti”.