EVEREST IN PACE - L’ALPINISTA SIMONE MORO SMONTA LA DEMAGOGIA DOPO LA MORTE DI 16 GUIDE IN HIMALAYA: “GLI SHERPA SONO UNA LOBBY. CHI ATTREZZA LE VIE PER LE SPEDIZIONI GUADAGNA DALLE 20 ALLE 50 VOLTE QUANTO UNO STIPENDIATO NEPALESE”

Enrico Martinet per "la Stampa"

Simone Moro, che in Himalaya ha partecipato a 50 spedizioni e ora lavora anche nel soccorso con un suo elicottero, mostra «grande preoccupazione» per il futuro di queste terre alte dopo la sciagura dell'Everest del 18 aprile in cui sono morti travolti da una valanga sedici guide dell'etnia Sherpa.

È accaduto all'inizio della stagione delle spedizioni commerciali che fanno salire sull'Everest centinaia di persone, grazie al lavoro degli Sherpa che attrezzano l'intero percorso. Ce n'erano trenta in arrivo al campo base nepalese quando sono caduti blocchi di ghiaccio grandi come auto e hanno provocato la gigantesca valanga. E altrettante avrebbero dovuto essere in cammino la prossima settimana.

Perché lei parla di correre ai ripari, anche ripensando la via alpinistica?
«La valanga è caduta alle 6 del mattino quando in quel punto c'è la massima concentrazione di persone. Se la valanga fosse caduta dieci giorni dopo avremmo assistito alla morte di alpinisti. Io credo si debba fare un passo indietro, proprio come itinerario. Fino a qualche anno fa la via di salita iniziale del grande ghiacciaio passava per il centro delle Ice Falls, dove il pericolo è rappresentato dal crollo di ponti di neve sui crepacci o di un seracco, non dalle valanghe. Negli ultimi tre anni invece la via si è addossata alla parete dell'Everest: è più veloce ma meno sicura, all'insidia dei crepacci si aggiunge quella della valanghe che cadono lungo il versante».

Lì gli Sherpa stavano attrezzando la zona con le corde fisse che offrono la sicurezza ai turisti d'alta quota.
«Sì, per questo dico che possiamo parlare di "morti sul lavoro"».

Ora rivendicano più denaro, chiedono maggiore tutela al governo e sono divisi: alcuni vorrebbero sospendere le scalate, altri no.
«Non vorrei essere equivocato, ma occorre fare chiarezza su quanto sta accadendo in Himalaya e soprattutto all'Everest. Ho sentito e letto troppe inesattezze e una sorta di valutazione morale errata. I morti sono morti e devono avere il massimo rispetto. Molti dei tredici li conoscevo, erano amici. Ma attenti alla demagogia, all'esagerato pietismo. Vede, qualcuno parla di morti sfruttati e sarebbe pronto a parlare di morti sfruttatori qualora le vittime fossero i clienti delle spedizioni commerciali. Non è così, Sherpa e operatori delle commerciali vogliono la stessa cosa, più gente sull'Everest».

Ma non sono mal pagati gli Sherpa?
«Chi attrezza le vie per le spedizioni guadagna dalle 20 alle 50 volte quanto uno stipendiato nepalese. Sa che sta succedendo? Che gli Sherpa, volendo fare concorrenza alle spedizioni occidentali, pagano la metà i loro connazionali, duemila dollari invece di quattromila».

E allora?
«Ci vuole un ripensamento globale. Si fa un gran parlare, riunioni dappertutto. Il risultato è che molte spedizioni hanno già fatto fagotto e alcuni clienti hanno chiesto i danni. E gli Sherpa, diventati troppo sindacalizzati, rischiano di rimanere senza lavoro. Guai per tutti, insomma».

Sindacalizzati?
«Sì, sono una lobby diventata molto potente. Hanno il sacrosanto diritto, per esempio, di chiedere assicurazioni per loro e le loro famiglie, che oggi sono troppo basse. Ma come è cambiato l'alpinismo, sono cambiati anche loro. Mal sopportano altre presenze. Pensi a quanto è accaduto a me, Steck e Griffith l'anno scorso. Ci hanno aggredito, abbiamo rischiato di essere uccisi».

Sull'Everest va troppa gente: verrà il giorno che molti potrebbero rimanere bloccati e morire su quella montagna. Non sarebbe meglio pensare a un numero chiuso?
«Sarebbe la fine di un'economia. Gli Sherpa per primi e perfino il governo nepalese non possono rinunciare a un'attività che offre loro possibilità di sviluppo. Per noi è facile parlare di numero chiuso. No, ci vuole un tavolo tra Sherpa, guide delle spedizioni commerciali e governo per studiare e decidere il da farsi, prima che la situazione sfugga di mano e sia incontrollabile».

Insisto, c'è troppa gente sull'Everest.
«Vero. Come avevo detto tempo fa ci vuole una regola ferrea e cioè: chi affronta l'Everest deve aver salito almeno altri due Ottomila. In questo modo si riducono i rischi e anche il numero degli alpinisti sulla montagna. Non solo: si incentiverebbero le spedizioni commerciali a indirizzare i clienti verso altri Ottomila, altre vallate, offrendo più lavoro ai locali».

 

 

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