''NON L'HO UCCISO IO'' - PARLA L'UNICO INDAGATO PER L'OMICIDIO DELLA COPPIA DI PORDENONE: ''TRIFONE ERA UN MIO COLLEGA, HO ANCHE PORTATO LA BARA. SOLO PERCHÉ NON HO UN ALIBI DEVO ESSERE STATO IO?'' - MA LA PISTOLA E LA SUA AUTO DICONO UNA STORIA DIVERSA
Giosuè Ruotolo, soldato campano di 26 anni, è l’unico indagato per il delitto di Pordenone, dove il 17 marzo vennero uccisi Teresa Costanza e il fidanzato Trifone Ragone. Il ragazzo è stato riconosciuto dal padre di Trifone come uno dei commilitoni che portavano la sua bara il giorno del funerale: in un’intervista a Newsmediaset lo stesso Ruotolo lo ammette e si difende.
L’INDAGATO E LA SUA DIFESA
«Io come tutti voglio trovare la verità», dice l’amico Trifone, il suo ex inquilino, il ragazzo con cui la vittima aveva condiviso il percorso militare, dal battaglione al concorso per entrare nella guardia di finanza e continua: «Se non ho un alibi devo essere per forza colpevole? Quello è palese... che non sono stato io», afferma convinto.
Ammette di aver portato la bara di Trifone: «Quello era proprio un collega mio, mi è sembrato opportuno farlo, doveroso proprio», dice il 26enne. Alla domanda sul perchè non si fosse più incontrato con Trifone dopo che questi aveva lasciato la casa per andare a vivere con la fidanzata, replica: «Ognuno ha la sua vita, non è che uno vuole essere invasivo, ci vedevamo in caserma». E infine dichiara: «Un’atrocità che un essere umano non può fare. Siamo stati a pezzi».
LE ACCUSE PER IL 26ENNE
Il ragazzo viene da Somma Vesuviana, il paese di Melania Rea: duplice omicidio e porto abusivo d’arma da fuoco sono le accuse a cui Giosuè deve rispondere. Appassionato di matematica, ha una fidanzata con cui compare a più riprese nelle foto sui social network. L’avvocato Giuseppe Esposito di Nola, per ora, ha scelto la strategia del silenzio.
trifone ragone e teresa costanza delitto di pordenone
Ruotolo è stato iscritto nel registro degli indagati per poter nominare un perito durante alcuni accertamenti irripetibili sul caricatore della pistola Beretta 7.65 rinvenuta nei giorni scorsi e ritenuta l’arma del delitto dopo le analisi. Se ci fossero riscontri come tracce di Dna o impronte, sarebbe la prova che al momento manca agli investigatori: l’accusa si basa infatti su alcuni riscontri circa la presenza dell’auto dell’indagato in zona ed anche da tracce lasciate dal telefonino.
L’ALIBI MANCANTE E L’AUTO
La circostanza della sua auto parcheggiata vicino al luogo del delitto incastrerebbe l’unico indagato per il duplice omicidio per almeno due ragioni. Innanzitutto perché Giosuè aveva dato agli investigatori una versione decisamente diversa da quella che emerge dall’indagine tecnica, corroborata dall’analisi delle celle telefoniche: «Quella sera ero a casa». Sarebbe cioè rimasto nel suo appartamento del centro di Pordenone, che ha condiviso fino a pochi giorni fa con due commilitoni.
Dunque, l’auto da una parte e lui dall’altra. Possibile? Sì, ma molto improbabile. Il secondo indizio è venuto da un «buco» temporale. Quello che separa i passaggi dell’automobile, intercettata in due punti diversi della stessa zona. Troppo tempo, troppo lenta quell’auto. All’orologio investigativo mancano diversi minuti (sei, sette, otto), considerata la velocità media di transito. Il conducente deve essersi fermato fra una telecamera e l’altra.
TERESA COSTANZA GIALLO PORDENONE
In quello spazio c’è l’ingresso del parco di San Valentino che porta a un laghetto. Lo specchio d’acqua dove la scorsa settimana sono stati ritrovati il caricatore e la vecchia Beretta 7.65. Quel che manca davvero per ora agli investigatori è il movente: si ipotizza un’alterco, si parla di debiti, si azzardano gelosie. Ma nulla di più.