NON LIBIAMO PIÙ - DALLA MORTE DI GHEDDAFI, IN LIBIA NESSUNO HA ESPORTATO DEMOCRAZIA: IN DUE ANNI, PIÙ DI MILLE I MORTI E NUMEROSE VENDETTE TRIBALI - NEGLI ULTIMI GIORNI SCONTRI TRA LE MILIZIE NELLA CAPITALE E A BENGASI: OLTRE 100 MORTI

1 - LA LIBIA DEL DOPO GHEDDAFI DISSOLTA DALLA GUERRA PER BANDE

Mimmo Candito per “La Stampa” 

 

Guerra in Libiae Guerra in Libiae

C’era una volta la Libia. Frantumata, squassata, dilaniata da quasi un milione di miliziani che ogni giorno si combattono tra di loro, e s’ammazzano senza nemmeno bandiere da sventolare al dio delle battaglie, quel Paese se ne sta andando a pezzi.

 

Si dicono tutti rivoluzionari, questo milione di signori del kalashnikov, e la rivoluzione è, naturalmente, quella del 17-Feb che poi portò alla fine di Gheddafi e della sua Jamahiryia; ma nei due anni appena passati, la loro rivoluzione liberatoria si è trasformata in una feroce guerra per bande, dove il potere e i petrodollari sono il solo collante che li tiene a spararsi addosso fucilate cannonate e missili.

 

Sono 40 i morti a Bengasi nelle ultime 24 ore, 97 i caduti a Tripoli in due settimane, da quando è cominciata la battaglia per il controllo dell’aeroporto della capitale. Ieri l’esodo degli Occidentali: tedeschi, inglesi, italiani.

 

Guerra in Libiac Guerra in Libiac

I 2 anni di guerra per strada hanno fatto finora più di 1000 morti e una lunga catena di durissime vendette tribali. Non è Gaza, ma lo sfascio è ancora più drammatico, perché in questo infinito deserto di petrolio che va dal Mediterraneo fin quasi al Sahara c’è comunque una vita che scorre, quotidiana, accanto a quelli che intanto s’ammazzano appostati all’angolo di un crocevia o dietro il riparo di un check-point.

 

L’ultimo segno che il crollo è davvero a un passo l’ha dato quel lugubre corteo di auto scure che, nella luce incerta della prima alba, l’altro ieri se l’è filata via da Tripoli lungo la strada costiera che porta in Tunisia. Quando gli americani scappano da un Paese vuol dire che un tempo è finito. Ne ha del buono il primo ministro Al Thani a dire, ora, che «gli americani torneranno presto, penso già ad agosto»; ma la fuga somigliava troppo a una ritirata dal Vietnam, perché si possa pensare a una gita fuorimura di pochi giorni.

Guerra in Libia e Guerra in Libia e

 

Tant’è che molte altre ambasciate stanno richiamando il loro staff o, comunque, stanno ordinando ai loro connazionali di abbandonare «immediatamente» la Libia. Nessuno può garantire la sicurezza. E questo vuol dire che lo Stato non c’è più; al suo posto, domina la legge delle armi, e chi ne ha di più vince.

 

La Libia di Gheddafi era certamente uno Stato patronale; e però era comunque uno Stato. Il Colonnello si compiaceva in alcune sue manie ideologiche, piuttosto confuse in quel progetto di un «potere del popolo», e sosteneva quelle manie con la durezza sanguinaria di una dittatura che non ammetteva l’ombra di un dissenso; tuttavia, il suo potere teneva ben unite una terra vuota come solo un deserto sa essere e le cento tribù che comunque ci vivono sopra, distribuendogli più o meno equamente carrettate di petrodollari, per tenerle quiete. La Libia era il «suo» Stato.

j christopher stevens AMBASCIATORE USA IN LIBIA j christopher stevens AMBASCIATORE USA IN LIBIA

 

Ammazzato lui, il nuovo Stato bisognava inventarlo. Che era materia non solo di costituzionalisti e giureconsulti, poiché nei fatti la Libia non è mai diventata un vero Stato, di quelli che la dottrina perfeziona nelle forme istituzionali, nemmeno quando il colonialismo italiano aveva appiccicato nel presuntuoso «scatolone di sabbia» tre terre d’integrazione assai forzosa, la Tripolitania a Ovest, la Cirenaica a Est, e laggiù, a Sud, il Fezzan.

 

Le tre terre significano decine e decine di clan e tribù che in comune hanno davvero poco, al di là della pratica dell’Islam, e della lingua araba; e caduta la mano di ferro del Colonnello, ognuno ha avuto le proprie rivendicazioni da imporre e il recupero della propria autonomia da affermare, oltre che il diritto a vendette a lungo represse.

 

Ma la Libia di Gheddafi era anche il più fornito arsenale di armamenti di tutta l’Africa, e in quell’arsenale lasciato libero dalla morte del Colonnello ogni «rivoluzionario» ha potuto fare rifornimenti da riempirsi casa e magazzino, senza dover chiedere autorizzazione ad alcuno.

 

Libia Misurata Libia Misurata

Nel vecchio regime, Gheddafi, che dall’esercito veniva, s’era guardato bene dal costituire un esercito forte e compatto, e aveva invece delegato l’uso delle armi a una serie di brigate assegnate al comando dei suoi figli; finito lui, morti o scappati o in galera i suoi figli, l’ex Stato si è sfasciato di colpo, e la sicurezza è diventata, appunto, una guerra per bande.

 

Che poi non son tutte di banditi di strada ma, anzi, in gran parte ricevono finanziamenti più o meno regolari dai singoli ministeri, che teoricamente le delegano al controllo della propria sicurezza. Se ne contano fino a 1720, di varia composizione tribale e locale, fino ad arrivare alle dimensione della Brigata Misurata, che tiene assieme 200 di queste milizie, con 40 mila uomini, 800 tank, e più di 2000 blindati.

 

Tante armi, tante ambizioni, tanto vuoto di potere, scatenano tentazioni difficili da controllare, sia per la distribuzione dei dollari ricavati dal petrolio sia per la gestione del territorio. In più la componente religiosa, che Gheddafi aveva assopito con il suo programma laico, ha trovato vitalità nuova nella contaminazione di quanto sta accadendo nel jihad maghrebino, e ora si spinge a immaginare una conquista del potere prendendo esempio dalla Fratellanza musulmana del Cairo o dall’Ennahda di Tunisi.

TRIPOLITRIPOLI

 

Nella guerra per bande, dunque, si inserisce con forza un progetto jihadista di destabilizzazione che ha in Derna e nelle formazioni di Misurata e di Ansar al-Sharia il nucleo più combattivo; gli americani, che hanno avuto ammazzato l’ambasciatore Stevens, credono che il rischio di uno scivolamento infernale sia troppo alto, e si mettono momentaneamente da parte.

 

La saldatura con quanto sta avvenendo nelle altre terra della Mezzaluna, dalla Siria all’Iraq e giù fino al Mali o alla Nigeria, pare un progetto forse folle ma non del tutto impossibile. E il petrolio (che copre il 23 per cento dei fabbisogni dell’Italia), e i 100 mila sventurati che sono ammassati sulle coste in attesa d’una barca per l’Italia, sono fattori che oggi osserviamo con preoccupazione. La Libia che non c’è più non è solo un problema di Tripoli.

 

2. CENTO ITALIANI VIA DAL PAESE MA L’AMBASCIATA RESTA APERTA

Guido Ruotolo per “La Stampa

 

Non c’è ancora nessun ordine di rientro forzato. Il governo segue di ora in ora l’evoluzione della situazione in Libia. E fino adesso il piano «volontario» di evacuazione ha funzionato perfettamente. In questi giorni, con gli aeroporti chiusi, oltre cento connazionali hanno lasciato La Libia via terra con l’assistenza dell’ambasciata italiana a Tripoli.

 

Profughi di Tripoli Profughi di Tripoli

I nostri diplomatici sono in costante contatto con i nostri connazionali. La rete di comunicazione è in piedi, funzionante. La centrale «operativa» è in grado di conoscere in ogni momento dove si trovano tutti gli italiani. Ogni loro numero telefonico è memorizzato in un unico archivio informatizzato. L’ambasciata italiana a Tripoli è in piena attività, per garantire la massima sicurezza a chi intende ancora rimanere e a chi ha deciso di lasciare il Paese attraverso il rientro «assistito». E ieri a Roma un volo speciale italiano trasportava anche personale di altre ambasciate occidentali.

 

Il giorno dopo la fuga da Tripoli del corpo diplomatico americano che ha abbandonato via terra la Libia (alcuni gruppi sono stati trasferiti a Roma con voli speciali), attraversando i confini con la Tunisia, da Bengasi a Tripoli continuano gli scontri tra le milizie contrapposte.

 

DISTRUTTO UN KENTUCKY FRIED CHICKEN A TRIPOLI IN LIBANO DISTRUTTO UN KENTUCKY FRIED CHICKEN A TRIPOLI IN LIBANO

E ieri altro personale diplomatico dei Paesi occidentali ha abbandonato il Paese. Lo scenario di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni non è rassicurante. I nostri analisti e i diplomatici sul campo convergono nel prendere atto che fino al 4 agosto, giorno in cui dovrebbe insediarsi il nuovo Parlamento eletto il 21 giugno e che ha visto la vittoria delle forze laiche e liberali, il barometro politico e istituzionale della Libia potrebbbe volgere a tempesta.

 

In un clima fortemente teso, con scontri tra milizie contrapposte (dove non contano soltanto le divisioni tra integralisti e laici) l’Italia è impegnata per garantire l’esito democratico di questa tumultuosa transizione libica.

 

In queste ore la Libia è isolata. Gli aeroporti sono chiusi. Si entra e si esce solo dalle frontiere con l’Egitto e la Tunisia. L’unica industria in piena attività è quella dei trafficanti di «merce umana», insomma di clandestini. Una nota dell’Eni ieri pomeriggio metteva in risalto la notizia che i due terminal petroliferi sono aperti. È un segnale di speranza.

LIBIA OCCUPATO L AEROPORTO DI TRIPOLI LIBIA OCCUPATO L AEROPORTO DI TRIPOLI

 

A Palazzo Chigi fanno notare quanto sia significativo il contributo per tentare di aiutare la transizione libica che viene in queste ore anche dal confinante Egitto. «Se al potere ci fossero ancora i Fratelli Musulmani, lo scontro sarebbe ancora più radicale». Il premier Al Sisi ha invitato al Cairo il presidente del consiglio Renzi. Nell’agenda politica internazionale c’è soprattutto lo scontro israelo-palestinese nella Striscia di Gaza. Ma anche la Libia è un tema sul quale Roma e il Cairo potrebbero giocare un ruolo importante.

 

 

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