Federico Fubini per il “Corriere della Sera”
Pochi giorni fa, nella distrazione quasi generale, poche parole sono scivolate via dal documento finale dell’ultimo vertice europeo. L’agenzia Reuters le aveva riportate dalla bozza di conclusioni, prima che sparissero: «I capi di Stato e di governo sottolineano l’importanza di completare l’unione bancaria».
Alla fine del vertice quella frase non c’era più. Eppure, nel gergo di un’area euro appena riemersa da una crisi che ne ha minacciato l’esistenza, aveva un significato preciso: lavorare per un’assicurazione comune dell’area euro sui depositi dei risparmiatori.
Oggi la garanzia sui conti correnti, uno strumento introdotto da Franklin Delano Roosevelt durante la Grande depressione americana degli anni ‘30, spetta a ciascun governo per il proprio Paese. In caso di crisi di una banca, sono assicurati con fondi pubblici nazionali i risparmi fino a 100 mila euro. Il progetto di un fondo europeo è partito durante la crisi per prevenire i problemi che si sono visti per esempio in Grecia: quando il pubblico non crede più alla capacità di un governo di garantire i conti, corre in massa a ritirare i propri fondi trascinando anche le banche nell’abisso.
Per adesso però l’assicurazione europea non si farà. Su di essa c’è il veto della Germania. Più esattamente, Berlino condiziona il suo assenso a una richiesta che, se passasse, rimetterebbe radicalmente in discussione il modello italiano di rapporti fra le banche e lo Stato. Secondo varie persone, il governo tedesco rifiuta qualunque assicurazione comune sui depositi fino a quando le banche in Europa del Sud non saranno protette dal rischio di una crisi sul debito pubblico. La richiesta tedesca è esplicita: vanno ridotti gli investimenti degli istituti in titoli di Stato del proprio Paese. L’obiettivo è evitare che anche le banche siano colpite da una crisi sul debito pubblico.
Per l’Italia la posta in gioco non potrebbe essere più delicata: agli ultimi dati (raccolti da Rbs) le banche del Paese detengono debito dello Stato per 454 miliardi di euro, un record senza precedenti. È così che finanziano un quarto dell’intero onere del debito pubblico italiano e in media impegnano l’11,5% dei loro bilanci.
Quando il valore dei titoli di Stato è i massimi, come ieri, le banche registrano forti plusvalenze; ma rischiano gravi perdite in caso di un nuovo terremoto finanziario come nel ‘92 o nel 2012. Ad eccezione di Finlandia e Slovacchia, non esiste in Europa un sistema bancario esposto sul debito nazionale come quello italiano. Gli istituti guadagnano sui titoli di Stato, e lo Stato conta su un finanziatore costante. Ma, visto da Berlino, si tratta di un equilibrio instabile da smantellare.
È per questo che il mese scorso a Bruxelles, riservatamente, è stato formato un «gruppo di lavoro». È una costola del Comitato economico e finanziario, gli sherpa dei ministri delle finanze europei (anche la Banca centrale europea è inclusa). Il compito del gruppo è indicare come le banche possano ridurre per gradi, negli anni, l’esposizione in titoli di Stato.
PADOAN VISCO GUZZETTI PATUELLI
La Bce segnala che sarebbe meglio avviare questa trasformazione quando la accetteranno anche le banche del resto del mondo, attraverso il Comitato di Basilea. Wolfgang Schäuble invece preferisce che l’area euro proceda da sola. Forse quello del ministro delle Finanze tedesco è solo un bluff per proteggere i contribuenti tedeschi da possibili esborsi, bloccando l’assicurazione europea sui depositi. Certo per ora gli è riuscito bene.