“MEGLIO UNA PIZZERIA DI UNA START UP” - LA PROVOCAZIONE DI BRIATORE COLPISCE NEL SEGNO: IN ITALIA SONO MOLTI GLI ASPIRANTI STEVE JOBS MA TRA 2033 START UP, LE AZIENDE DI SUCCESSO SI CONTANO SULLE DITA DI UNA MANO

Anche il New Yorker smonta alcuni luoghi comuni sulle startup definendolo un mondo afflitto da un “endemico ottimismo” - Carmelo Cennamo, docente alla Bocconi: “In Italia chiamiamo startup qualsiasi cosa. Fallimentare limitarsi a replicare gli Usa: ci focalizziamo sui social quando sarebbe meglio puntare su app per le visite nei musei”…

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Giuliana De Vivo per "il Giornale"

 

Yancey Strickler fondatore di kickstarter jpeg Yancey Strickler fondatore di kickstarter jpeg

«Futuro». «Innovazione». «Nuova frontiera». Non importa di cosa, va bene anche se si sta descrivendo la centesima app per trovare parcheggio. Concetti da maneggiare con cura che, quando si tratta di startup, sono ridotti a intercalare retorico. Perché ormai se ne parla ovunque, non vi siete accorti che intorno a voi si muove un popolo di innovatori, piccoli ma geniali Steve Jobs, visionari della porta accanto? «L'Economist ci ha dedicato una copertina», dichiarano tronfi ed euforici i sostenitori del genere.

 

Certo, in quell'articolo si parla di «momento cambriano», cioè di esplosione delle startup, ma nella Silicon Valley, a un oceano di distanza da qui, in un mondo dove il venture capitalism è ben più sviluppato e il bacino di potenziali clienti decisamente più vasto. In quelle stesse pagine c'è una mappa dello stato dell'arte nel mondo e, pensate un po', l'Italia non si vede neanche.

 

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Compaiono, tra le città europee, Londra, Berlino, Madrid, Monaco, Barcellona, Parigi. Neanche una italiana. Secondo il registro delle imprese di InfoCamere (aggiornato lo scorso 12 maggio) nello Stivale esistono 2033 startup innovative. Quelle diventate aziende di successo (Mutuionline, Venere, per citare le più note) si contano sulle dita di una mano. Una su dieci sopravvive nel lungo periodo negli Usa, da noi si scende sotto l'unità.

 

Eppure scatta subito l'indignazione per certe facili provocazioni come quella di Flavio Briatore che un mese fa parlando agli studenti della Bocconi ha detto: «più che una startup vi consiglio di aprire una pizzeria». Volete la citazione autorevole? Sul New Yorker James Surowiecki ha smontato alcuni luoghi comuni sulle startup, definendolo un mondo afflitto da un «endemico ottimismo».

 

GUIDA ALLE STARTUP GUIDA ALLE STARTUP

È sbagliato, scrive Surowiecki, considerare i molti fallimenti alle spalle come un valore aggiunto: «certo è un messaggio che conforta, ma l'evidenza suggerisce che passati fallimenti preconizzano futuri fallimenti». Affidarsi alla legge dei grandi numeri, per cui se tenti cento volte prima o poi una la azzecchi, è altro rispetto al normale rischio d'impresa.

 

Secondo Carmelo Cennamo, docente di imprenditorialità, analisi industriale e innovation management alla Bocconi, che una certa retorica sulle startup in Italia abbia preso il sopravvento «è un fatto conclamato, basta guardare ciò che qui da noi viene facilmente osannato, prendere un omologo in un Paese più serio come Inghilterra, Germania, Israele, e si nota subito che ci esaltiamo per poche migliaia di euro».

 

FLAVIO BRIATORE ALLA BOCCONI FLAVIO BRIATORE ALLA BOCCONI

Insomma, «non basta una mera attività con un raggio d'azione di qualche migliaio di clienti, ci vuole una vera scalabilità, funziona se da un mese all'altro si raddoppiano gli utenti, i dipendenti, il fatturato: questi sono i ritmi veri». Ma il problema, continua il professore, è che «qui chiamiamo startup qualunque cosa, perché ci innamoriamo dei termini anglosassoni e tendiamo a confondere un po' tutto».

 

Quindi, si chiude bottega? Il problema, come la sua soluzione, secondo Cennamo stanno nell'approccio. «È fallimentare limitarsi a replicare gli Usa, dove il sistema è molto più oleato e la tradizione sul digitale molto più forte»: da noi non c'è ancora ovunque la banda larga, il digital divide è forte. Meglio sarebbe «puntare su settori in cui abbiamo un vantaggio comparativo, come il Made in Italy, il turismo».

 

Ma tra PMI, grandi imprese e startup c'è poca comunicazione, ciascuna coltiva da sola il proprio orticello. «Nessuno - argomenta il professore - immagina di risolvere i problemi concreti dei turisti, una fetta di mercato amplissima. Se si creassero app per le visite nei musei sarebbe interessante, il problema è che ci focalizziamo su social network».

 

Qualcosa in questo senso comincia a muoversi: a Brescia nell'incubatore Superpartes si sceglie su cosa investire (anche hardware, non solo sofware) studiando le esigenze delle imprese del territorio (due di queste, Streparava Spa e OMR Holding, hanno acquisito una quota di capitale). Cennamo cita come modelli due startup del design come Made.com e design42day.com. Insomma, delle strade ci sono. Basta non scimmiottare gli americani, e ricominciare a parlare italiano.

 

 

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