Marina Pierri per www.wired.it
Dal 7 aprile sarà disponibile su Amazon Prime Video American Playboy: The Hugh Hefner Story. L’interessante docuserie ricostruisce la vita del fondatore della rivista mettendo in scena la macroscopica portata innovativa di Playboy responsabile – nel bene e nel male – di aver costruito uno dei marchi più incisivi e influenti degli ultimi sessant’anni. Se non altro nelle sue profonde conseguenze.
“Ciò che resta impresso, nella nostra cultura, non è tanto il brand ma il personaggio”, racconta il produttore dello show Stephen David, intervistato da Wired in occasione della sua uscita. “E nel nostro caso le due istanze sono completamente fuse. Hefner ha fatto lo sforzo cosciente di diventare il playboy che cercava di rappresentare e che gli altri aspiravano a diventare. Ha dato voce al Playboy lifestyle, alla filosofia Playboy. Voleva essere il suo giornale“. È effettivamente questa l’intera premessa di American Playboy, la storia di un uomo infelice e geniale che ha modificato il mondo per sempre.
Guardare la docuserie è un viaggio all’indietro alla scoperta delle radici di alcune storture del costume contemporaneo perché la maggior parte di noi non ha, probabilmente, idea della pervasività del condizionamento apportato alla nostra società dal giornale di Hugh Hefner. Nel 2017 siamo estremamente familiari con l’estetica dell’uomo ricco, con tre macchine sportive in garage, il portafoglio gonfio, l’atteggiamento goliardico e una cerchia di donne destinate a rafforzarne l’identità vincente a suon di sorrisi e remissività: basti pensare a Barney Stinson di How I Met Your Mother (per fare un esempio derivato dalla cultura pop) o al presidente degli Stati Uniti in persona, Donald Trump, e generalmente a quel che oggi è lo stereotipo maschile più forte, più penetrante esistente. Quello che chiamiamo stereotipo del playboy. Appunto.
Ci si può spingere a dire che il brand – dal punto di vista della percezione di genere – sia il più forte degli ultimi sessant’anni. Lo stesso che il movimento femminista (e non solo) combatte senza sosta, e alacremente, per sradicare.
“Certo, ci aspettiamo delle critiche in seguito all’uscita della docuserie, il cui obiettivo però non è stabilire se quel che ha creato Hefner, in tutto il suo vasto spettro di conseguenze, sia giusto o sbagliato. Quando ho parlato con lui, mi ha detto che la cosa più sorprendente che sia mai capitata nella sua vita è stata l’odio delle donne, la rivolta nei suoi confronti. Se devo dire la verità” continua David, “io sono stato sorpreso che lui sia stato sorpreso. È così palese che esista uno sfruttamento femminile. Eppure quando ha fondato il giornale, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il suo obiettivo sembrava essere davvero la liberazione di entrambi i generi da una schiavitù”.
Guardando American Playboy è facile dar ragione a David: Hefner è stato un disruptor nel pieno senso del termine. Dal nulla, nel 1953 ha messo assieme 6mila dollari (una cifra interessante per i tempi) per avviare la testata che avrebbe forgiato e applicato, molto distintamente, il concetto di life-hacking al mondo maschile: quali abiti scegliere, quale lavoro perseguire, quali libri leggere, quali parole usare per diventare un playboy sono i consigli presto divenuti cavallo di battaglia delle pagine del suo giornale. Eppure il vero scopo dell’uomo costruito da Hefner, come un Pigmalione, era ben più semplice: piacere alle donne. Non a tutte, però. Quelle giuste. Quelle agognate in maniera masturbatoria e percepite come irraggiungibili. Quelle le cui misure e generalmente i cui canoni estetici fossero approvati dallo stesso patinato mentore da acquistare in edicola. Così la rivoluzione ha finito per avere due facce, quelle dei due generi (maschio e femmina) nuovamente scolpiti alla luce di un set di valoriinnovativo negli anni Cinquanta. Una formula basata sulle nozioni blande di gioia di vivere e sesso senza catene, crescita e affermazione individuale. Libertà di espressione. A un prezzo esoso che si sarebbe rivelato soltanto nel tempo.
L’uomo Playboy concepito da Hefner era un marchio vivente, l’ambasciatore di brand convinto e consapevole del tipo che non si può comprare. Quest’ultimo, però, non valeva quasi a nulla da solo; aveva bisogno di una spalla per funzionare. Ed ecco dove subentra la donna (la cosiddetta Playmate, una compagna di giochi). Se da un lato, dunque, l’enfasi era posta sulla sete di successo e sulla determinazione del nuovo solopreneur hefneriano con tutta la pressione che poteva derivarne, dall’altro alla coniglietta veniva immediatamente offerto un ruolo da comprimaria che aveva i suoi benefici. Per quanto oggi possa suonare allucinante, Playboy si è battuto per i diritti delle donne: ha sostenuto la campagna pro-aborto, per dirne una e ha dato forma (più o meno letteralmente) all’odierna femminilità desiderante;
l’immagine della femmina che ama il sesso, abbraccia la frivolezza in una maniera positiva e progressista sembra anche essere frutto del lavoro di Hefner sull’immaginario collettivo. Il corollario spiacevole è che la Playmate non avrebbe potuto essere, mai, altro che una donna sessualmente sveglia, emancipata e orgogliosa, perché altrimenti le stesse basi del Playboy lifestyle sarebbero crollate: per quale donna si sarebbe fatto bello lui, per chi avrebbe guadagnato miliardi, per compiacere chi avrebbe acquistato case grandiose e auto sportive? Non certo per una casalinga che non si offriva, né per una ragazza umile e schiva che non avrebbe gradito mostrarsi al pubblico al suo fianco. Perché è ed è sempre stata la Playmate il punto di arrivo definitivo del Playboy. L’oggetto ultimo.
Complicato, indubbiamente; ma straordinariamente affascinante scoprire che così tanta parte della nostra percezione attuale del gioco dei ruoli tra uomo e donna sia stata assegnata – nei fatti – da un modesto pubblicitario degli anni Cinquanta nella calma del suo appartamento. Specie considerata l’evoluzione di Playboy, la progressiva scivolata nel grottesco nell’esasperazione del bagaglio etico della rivista. Così Hefner è divenuto pian piano quel che conosciamo oggi: un uomo in vestaglia rossa in una villa gigantesca, ai cui party opulenti in piscina hanno partecipato maestri della violenza sessuale;
un uomo che aveva tre fidanzate, ordinate in base alla sua preferenza personale, che somministrava Quaalude perché era una medicina “apricosce”. Un uomo raccontato in libri crudeli quali Down the Rabbit Hole: Curious Adventures and Cautionary Tales of a Former Playboy Bunny, il resoconto del 2015 della ex “fidanzata numero uno” di Hefner, Holly Madison, che mette a nudo lo stile di vita del Playboy così come è divenuto in epoca recente. Un uomo, infine, che ha incarnato la sua creatura fino al parossismo.
“Hugh Hefner non è un eroe americano. È un personaggio dicotomico. Non credo neppure che lui si descriverebbe così. Ha lottato per quello in cui credeva, ai tempi ma era pieno di contraddizioni”, conclude il produttore di American Playboy David, sostenendo che oggi i figli dell’imprenditore abbiano preso le redini del giornale con l’intento di riportarlo alla dimensione di voce rilevante del panorama attuale. Eppure, così come Playboy continua a essere percepito, è facile immaginare che il suo spazio vitale sia destinato a restringersi ancora fino a contrarsi del tutto.
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