DAVID BOWIE, BLACKSTAR - VIDEO
Gino Castaldo per “la Repubblica”
Per trovarlo ormai bisogna muoversi verso i più remoti recessi della galassia, su uno sperduto pianetino fatto di rocce vulcaniche, vegetazione fitta e lunghe distese di mare perché ormai è chiaro: lui è l’ultimo degli Jedi, l’unico sopravvissuto alla strage che ha falcidiato i grandi maestri del rock.
È rimasto nascosto per lunghi anni, è tornato nel marzo del 2013 con The next day, ottimo album ma che alla luce del nuovo materiale sembra solo un delizioso aperitivo di quello che a tutti gli effetti è il suo vero ritorno, il disco che come un’oscura e raggelante distopia si intitola “Blackstar” e uscirà l’8 gennaio, giorno del suo 69simo compleanno.
Il disco, diciamolo subito è magnifico, ribollente di idee, mobile, a suo modo grandioso proprio a partire dal pezzo che gli dà il titolo e che era già stato presentato un mese fa.
Ad ascoltare e vedere la clip del pezzo veniva quasi da ridere. Una follia, se pensiamo che per singolo si intende di solito il brano più immediato, più accattivante, quello che viene scelto per trainare commercialmente l’uscita del disco.
Blackstar è una feroce visione di dieci minuti (ricorda antichi deliri berlinesi di Bowie) piuttosto una suite, tragica, morbosa, quasi insostenibile nella sua dolorosa celebrazione di perdita e oscurità, illustrata magistralmente in un video che comprende uno scheletro di astronauta che, con buona probabilità, è il disperso Major Tom di Space Oddity.
Bowie, ultimo degli Jedi, non fa sconti e come singolo, ribaltando ogni logica di mercato, sceglie non il pezzo più commestibile ma quello più estremo, assurdo, fuori da ogni possibilità di compromesso.
Dunque la stella nera è il sole che illumina, si fa per dire, questo lontano sistema in cui il Bowie-Jedi si è autoesiliato e pervade il disco di un inquieto chiarore, una mobilità intensa, con abbondanza di parti strumentali, cantati fortemente teatrali, ritmiche veloci e guizzanti, anni luce lontano dalle misere necessità dei nostri tempi.
La chiave per capire questa coinvolgente atmosfera da free-rock ce la offre il produttore Tony Visconti: «Bowie ha voluto musicisti jazz per suonare il rock. Avere ragazzi jazz che suonano il rock vuol dire capovolgere tutto».
Ecco, appunto, capovolgere tutto, un sole nero al posto di quello che vediamo tutti i giorni, jazz al posto del rock e viceversa, in un frastornante flusso di suoni e versi che qualcuno ha già paragonato ai dischi dell’età d’oro della storia di Bowie o addirittura alla trilogia berlinese, vedi pezzi come Sue ( or in a season of crime) o I can’t give everything away, o la travolgente Tis a pity she was a whore, per non parlare della struggente Lazarus, che è stata inclusa nel musical omonimo, sequel teatrale di L’uomo che cadde sulla terra, il romanzo di Walter Tevis da cui fu tratto il celebre film nel quale Bowie interpretava l’alieno.
Di sicuro è difficile trovare qualcosa di simile in circolazione, nel nuovo disco c’è più coraggio, più visione del futuro della gran parte dei dischi che si pubblicano oggi, senza perdere la maestosità del disegno che ha contraddistinto le opere migliori di Bowie.
Lui è lì, distante, altero, un monito vivente alla desolazione dei tempi, ci sta offrendo una pessimistica e spietata visione di un’umanità che ha perso il senso della sacralità nei suoi gesti, nelle sue scelte, nelle sue prospettive, ci indica un mondo malato, morbosamente afflitto. Ma allo stesso tempo Bowie è tornato, e se è vero che lui è l’ultimo degli Jedi, l’ultimo sopravvissuto dei grandi maestri della musica, allora il suo gesto vuol dire molto. La forza è lì, potrebbe tornare, e la salvezza passa attraverso la possibilità che nuovi, giovani Jedi raccolgano quell’eredità.
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