Testo di Gabriele Vacis per Tuttolibri - la Stampa
U n amico, professore di letteratura all' Università, mi ha raccontato che ogni anno chiede ai suoi nuovi allievi i tre scrittori viventi che preferiscono. I più votati sono Baricco, Saviano e… E non gli veniva il terzo nome. D' Avenia, gli suggerisco. Giusto! Mi fa lui: ma tu lo conosci? Si. Vale la pena leggerlo? Direi proprio di si.
D' Avenia ho cominciato a leggerlo su La Stampa. Mi piacevano i suoi articoli che parlavano di padri e figli, del rapporto tra le generazioni, della rinuncia all' educazione di questo nostro mondo rapidissimo. Poi, mentre giravo un film con dei ragazzi, una di loro stava leggendo Bianca come il latte rossa come il sangue .
Com' è? Le ho chiesto. Bellissimo, mi ha risposto. Vale la pena leggerlo? Direi proprio di si, appena l' ho finito te lo regalo.
Leggere quel libro mi ha ricordato l' effetto che aveva avuto su di me, e su molti miei coetanei, Boccalone, storia vera piena di bugie di Enrico Palandri. Quando l' ho letto avevo più o meno l' età della ragazza che mi ha regalato Bianca come il latte rossa come il sangue .
Sono libri «generazionali». Quarant' anni fa Boccalone eravamo noi. Quel libro aggregava un «noi» di ragazzi che volevano lasciarsi alle spalle gli anni di piombo. Che volevano passare dalle parole rivoluzionarie, alla rivoluzione dei rapporti tra le persone e dei sessi. Molti anni dopo il libro di D' Avenia aggregava un «noi» di ragazzi che volevano rompere la campana di vetro di sicurezze che noi genitori gli avevamo costruito. Che volevano affrontare da soli le ingiurie del diventare grandi. Sono libri che segnano.
Dopo Boccalone Palandri ha scritto romanzi molto più belli ed importanti. Ma quel libretto là, occupa un posto speciale nella mia memoria. E lo stesso vedo capitare agli adolescenti che hanno letto Bianca come il latte rossa come il sangue .
C' è una differenza, però, tra i due libri. Quando Palandri scrisse Boccalone aveva la stessa età dei suoi lettori. D' Avenia il suo libro l' ha scritto da professore. Un giovane professore, ma comunque un adulto. Non è facile per un adulto connettersi all' universo dei giovanissimi.
Non è mai stato facile, ma con i nativi digitali è ancora più difficile. D' Avenia ci riesce perché si assume la responsabilità dell' educare. Lo si capisce guardandolo nella sua classe. Quando mi ha chiesto di curare il racconto del suo nuovo libro per il teatro, ho voluto vedere le sue lezioni nel liceo dove continua ad insegnare italiano e latino. La lezione su Leopardi è stata subito una sorta di sintesi de L' arte di essere fragili.
Vederlo parlare ai suoi allievi era come se il libro prendesse corpo.
E' una cosa rara quella che vedevo accadere. Per spiegarla ho bisogno di Carmelo Bene. Lui diceva: sulla scena io non parlo, sono parlato.
Questo è quello che dovrebbe sempre accadere in teatro. C' è il corpo dell' attore e ci sono i corpi degli spettatori. L' attore che parla può ascoltare coloro che lo ascoltano. Per cui, quello che dice, entra in un circolo di comunicazione profonda. E' come se fossero gli spettatori stessi a parlare. Quante volte pensiamo, leggendo un libro: sta scrivendo quello che penso anch' io, solo che io non riuscivo a trovare le parole. In teatro l' esperienza si intensifica: sta dicendo quello che penso anch' io, solo che io non riuscivo a dirlo. Dire comporta un' assunzione di responsabilità più intensa di scrivere. Non che l' una cosa valga più dell' altra. E' che quando si dice, chi ascolta è lì, presente.
La presenza è il segreto del successo di Alessandro D' Avenia. Del suo successo editoriale come del suo successo di insegnante. E adesso anche di «attore» sul palcoscenico. Il narratore presente a sé stesso costringe chi ascolta, gli studenti a scuola, gli spettatori a teatro, ad essere a loro volta presenti. Così si compie il circuito della comunicazione reale. Quello che parla non può prescindere dall' ascoltare quelli che ascoltano. Alla fine viene da chiedersi: chi è che parla e chi è che ascolta? E' qualcosa di simile a quello che spiega Leopardi ne «L' infinito».
Sempre caro mi fu quest' ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell' ultimo orizzonte il guardo esclude. E' una questione di articoli e preposizioni. Perché scrive da tanta parte? Perché scrive il guardo esclude? Se fosse: …che tanta parte dell' ultimo orizzonte al guardo esclude, sarebbe tutto più chiaro, no? Invece quel da ribalta la prospettiva: non è che Leopardi guarda e la siepe gli nasconde l' ultimo orizzonte. E' che Leopardi è guardato. E' che ci sono momenti in cui riuscire a vedere davvero quello che guardiamo permette all' universo di vederci, di guardarci a sua volta. Ed è questo che ci fa naufragare dolcemente nel mare dell' infinito.
Così gli allievi di D' Avenia, grazie alla «presenza» del professore, ma sarebbe meglio dire del maestro, sono guardati, sono ascoltati. Questo intendevo quando dicevo: assumersi la responsabilità dell' educare, riuscire veramente a tirare fuori i pensieri, i desideri, la presenza dei ragazzi. Connettersi con l' universo dei giovanissimi.
Leggendo soprattutto gli ultimi due libri di D' Avenia, Ciò che inferno non è e L' arte di essere fragili , l' impressione è che scriva come parla, o meglio: come è parlato, a scuola e a teatro. Vale la pena leggerlo? Si, e anche ascoltarlo.