Marco Molendini per Dagospia
Ho ascoltato Only the strong survive, il nuovo album black di Bruce Springsteen. Una scorribanda in territori consacrati che ha tutta l'aria di essere una prova con se stesso alla ricerca dei suoni, della musica ascoltata negli anni di formazione. Il Boss non poteva però farlo in modo sfacciato, così è andato a scovare pezzi di seconda linea, con sconfinamenti (un brano di Frankie Valli The sun ain’t gonna shine anymore), pescando titoli che appartengono alla stagione calante del soul, tranne hit come Do I love you (indeed I do) e Don't play that song, vere e proprie pietre miliari legate ai suoni e a confezioni clamorose.
BRUCE SPRINGSTEEN Only The Strong Survive, Covers Vol.1
Ho ascoltato Only the strong survive e sono rimasto perplesso. E' un disco di Springsteen che non fa Springsteen ma resta inevitabilmente Springsteen. Mi spiego, la sua personalità, la sua forza sono tali per cui è difficile prescinderne, gratta gratta viene fuori sempre il solito passionale, travolgente protagonista della canzone americana che affonda le sue radici nel rock e in qualche modo nel filone folk (e infatti l'altro grande capitolo discografico di omaggio, le Seeger sessions, è un capolavoro di fedeltà e risultato).
Viene fuori l'interprete che plasma, tutto quello che passa tra le sue mani, sulla sua strabordante personalità. Con la black music, però, è un altro paio di maniche, c'è una grammatica naturale dove la forza dell'interprete si modella sulla duttilità (anche vocale), su un senso del ritmo e del controtempo che sa essere travolgente e leggero, ben diverso dalla muscolarità rock. E il paragone in certi casi è duro.
Bruce canta benissimo, la band lo supporta con energia e entusiasmo ma poi, arrivati alla fine, ti chiedi (ed è una domanda che chissà se si è posto anche Springsteen), ma non erano meglio gli originali? La voce inimitabile, tutta nasale, vibrante, quasi implorante di Ben E.King in Don't play that song (per non parlare della versione infuocata, quasi gospel, di Aretha Franklyn) e l'exploit, misconosciuto, di Frank Wilson (andate ad ascoltarlo su Spotify) in Do I love you (indeed I do).
Si capisce perché il Boss non ha voluto rischiare altri paragoni azzardati, rivolgendosi a canzoni incolori o pezzi di risulta di gruppi storici come i Four tops (When She Was My Girl e 7 Rooms of gloom) o i Commodores (Nightshift). Insomma, Springsteen ha fatto un disco soul dove a mancare è il soul e, alla fine, sono andato a riascoltarmi le Seeger sessions.
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