Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano”
Renato De Maria ha 56 anni e ne dimostra almeno dieci in meno. Ha un volto da fumetto, ride spesso, conosce l’ironia: “Per tutti o quasi sono soltanto il marito di Isabella Ferrari” e tra pochi giorni sarà al Festival di Venezia, concorso Orizzonti, con il suo quinto film. La vita oscena, l’ultima tappa affrontata scalando una visionaria esperienza biografica di Aldo Nove, è un viaggio vitale e disperato al centro di una fragilità.
Un giovane poeta che ha perso improvvisamente i genitori, un fiume di cocaina, la pulsione al suicidio e un cast che vede muoversi in uno spazio stretto il protagonista del ’68 parigino di Olivier Assayas, Clement Metayer, Isabella Ferrari (anche coproduttrice), Iaia Forte e Roberto De Francesco.
Dopo aver viaggiato tra le tavole di Andrea Pazienza e le contraddizioni del nostro terrorismo, De Maria ritorna all’età che preferisce. Il momento di passaggio: “In cui evaporate le gioie giovanili, ti viene chiesto il prezzo della felicità pregressa”.
Aspettando i riverberi lagunari: “Al Lido non sono mai stato, un po’ di timore c’è, ma sogno che La vita oscena, un’opera anomala, piaccia” a De Maria sembra che dai ieri non sia cambiato nulla. “Nel 2002 girai Paz! con 500 milioni di lire, La vita oscena è costato più o meno lo stesso. In mezzo c’è un decennio e non so se ravvisare nel dato i tratti della coerenza o della fregatura”.
ISABELLA FERRARI E MARITO RENATO DE MARIA
Per La vita oscena ha avuto a disposizione solo venti giorni di riprese.
Per non perdere un secondo abbiamo pianificato ogni dettaglio in anticipo. Il vantaggio di produrre a basso costo è non avere urgenze. Immagini un’ipotesi, la percorri e quando arrivi in fondo, magari, sono trascorsi tre anni.
Il libro di Aldo Nove non si prestava a una traduzione semplice.
ISABELLA FERRARI E MARITO RENATO DE MARIA
Ma è un libro bellissimo e Nove, dai tempi cannibali del suo Woobinda, non ha receduto di un passo. Grande scrittura, grande lavoro da artigiano della parola, grande coraggio nel raccontare senza filtri.
Perché ha deciso di portare la sua storia sullo schermo?
renato de maria isabella ferrari
Perché a tratti, mentre leggevo, non riuscivo a scorrere le pagine e dovevo fermarmi. Una sera incontro il produttore Gianluca De Marchi a cena. Mi dice che vorrebbe investire nel cinema italiano, ma che le storie mancano di coraggio e prospettiva. Allora mi incazzo e gli propongo di rischiare: ‘Leggi il libro di Aldo Nove e poi dimmi se questo non è un film da fare subito’. Pensavo sarebbe fuggito. Non si è mosso. Con il suo contributo e con quello del ministero ce l’abbiamo fatta.
h mel12 renato de maria isabella ferrari
Tra i produttori, oltre a Fabio Mazzoni e Isabella Ferrari, c’è anche Riccardo Scamarcio con la sua Lebowski.
È entrato in gioco a film quasi finito, entusiasta , dopo aver visto qualche spezzone. Riccardo impara in fretta. Aveva fatto esperienza con Miele di Valeria Golino e il suo contributo, non solo economico, è stato fondamentale. È strano parlare di soldi quando i soldi finanziano le idee.
Perché?
Perché un tempo servivano ad altro. Sono nato nel 1958, in piena atmosfera da Rocco e i suoi fratelli. Famiglia povera e numerosa originaria di Vitulano, un paese del Sannio. Papà era sarto, mamma si arrangiava con il lavoro nero. A un certo punto, per fame, emigrarono a Nord.
Lei è nato a Varese.
Quartiere San Fermo, un posto difficile, una realtà estrema. Potrei raccontarle molti dettagli melodrammatici sulla miseria, ma in realtà mi ricordo di aver sofferto per cazzate come i quaderni o le matite della scuola.
andrea pazienza disegnato da milo manara
Non potendole comprare, venivano fornite dal patronato scolastico e in qualche modo, in quella società iperclassista eretta sulla cattiveria dei bambini, le matite del patronato date ai calabresi, ai campani e ai pugliesi, erano un segno distintivo. Identificano il possessore come povero, come disgraziato e lo esponevano allo scherno dei compagni. Io piangevo come un pazzo e a scuola, ovviamente, non volevo andare mai. Poi venne il colpo di culo.
Il colpo di culo?
Papà vinse un concorso statale e venne trasferito a Bologna. Felicissimi, compimmo senza traumi il salto sociale dal sottoproletariato alla piccola borghesia. La casetta fuori porta San Felice, le biciclette per i figli, l’auto, il televisore. Erano anni belli, si giocava a calcio nei campi dietro il Reno e quando passava una macchina si fermava il conducente con un gesto: ‘Spetta mò che recupero il pallone’.
Bologna era il porto franco, la città universitaria che ospitava centomila studenti.
La città del Dams, di Radio Alice, dei collettivi che accesero la fiamma del ’77. Mia sorella entrò nel Movimento Studentesco molto presto. In casa vedevo strana gente con la barba e con l’eskimo, ragazzi che fumavano e per me, all’epoca, fumare era gravissimo.
A Bologna, prima di mettere in scena Pentothal, Fiabeschi e Zanardi, conobbe anche il loro autore, Andrea Pazienza.
Andrea è stato un genio assoluto, ma è stato soprattutto un mio amico. Con lui ho diviso giornate, deliri, dialoghi folli, nottate. Parlava mentre disegnava, aveva sempre una mano in movimento, non si fermava mai e aveva dentro un fuoco e un’energia che non ho più ritrovato in nessun altro.
Pazienza riuscì a fissare sulla tavola la generazione del ’77 come nessun letterato riuscì a fare.
Con il fumetto fece letteratura allo stato puro. Sapeva alternare alto e basso, dava spazio e pari dignità alla citazione colta e alla battuta del ragazzo strafatto, incontrato sotto i portici a un passo dall’alba. Andrea scrisse Pentothal a 21 anni e diventò immediatamente una rockstar. Per gli altri fu una folgorazione. A noi che lo conoscevamo bene, rimaneva lo stupore di qualcuno dei nostri che ci sapesse raccontare così bene in presa diretta.
Pazienza è morto a giugno, di overdose, 26 anni fa.
Era andato a vivere in Toscana, stava lavorando a un progetto importante ed è morto quando con la droga aveva smesso da anni, cadendo un’ultima volta su un vizio che il suo corpo non era più abituato a sopportare.
Era preoccupato per lui?
Ero preoccupato per tante persone. La nostra generazione si stava dissolvendo, era un periodo molto punk. C’era un certo insensato disprezzo per la vita alla fine degli Anni 70. Una sorta di menefreghismo artistico che a 23 anni, quando pensi di essere eterno, può attraversarti. La morte è lontana. Non ci pensi. Te ne freghi.
Cosa è stato davvero il ’77 italiano?
Mesi di felicità e di recupero di spazi, vita, linguaggi e pezzi di città. C’era libertà espressiva e una gioia da avanguardia storica, in quella Bologna. Poi all’improvviso, l’ebbrezza mutò in tragedia e alla leggerezza degli inizi subentrò la violenza. Scontri tra Polizia e manifestanti, carri armati nelle strade, un’incomprensione di fondo fatale tra il Pci e il Movimento. Diciamo che non ci siamo capiti.
Non vi siete capiti.
Il Pci era destinato a morire, noi a bruciarci. I vecchi partigiani presidiavano il Sacrario dei caduti della Resistenza temendo l’assalto dei nuovi Lanzichenecchi, i gasisti del servizio d’ordine del Pci non perdevano occasione per darcele in piazza di santa ragione, Cossiga imperversava e Berlinguer aveva bollato i manifestanti bolognesi come Diciannovisti. Mettere sotto il cartello ‘nuovi fascismi’ la confusa creatività di quei mesi bolognesi creò danni irreparabili. C’erano gli stronzi e c’erano i talenti. Si preferì semplificare.
Fu un peccato?
In Francia i nouveaux philosophes vennero chiamati da Mitterrand a contribuire alle riforme culturali, in Italia invece, al tramonto dei ‘70, una parte del Movimento confluì nel craxismo e l’altra nel terrorismo. Ora è chiaro che i terroristi non sono diventati tali perché lo Stato ha dato una risposta dura, ma che l’Italia abbia avuto il fenomeno terrorista più lungo d’Europa è un fatto.
Nel marzo del ’77, colpito da un carabiniere, a Bologna morì Francesco Lo Russo di Lotta Continua.
Era il fidanzato di una mia compagna di classe, fu uno choc. In quell’estate lavorai come facchino per scappare rapido da una paranoia che ci stava distruggendo. Ero passato dai balli ai funerali e gli amici facevano scelte incomprensibili, la Polizia pestava a prescindere e io volevo cambiare scenario.
Appena raccolsi i soldi per il biglietto aereo andai a New York per studiare Filosofia alla Columbia University. Mi dividevo tra gli appartamenti degli zii. Uno a Brooklyn, uno a Long Island. Ero felice. Scaduti i sei mesi di corso, mi ingegnai per rimanere ancora. Cercai la stanza di Downtown più economica che esistesse e la trovai. Un dollaro al giorno. Poi lavorai come cameriere e lavapiatti. A New York ho fatto di tutto e conosciuto persone straordinarie.
Nomi?
Musicisti, graffitari, pittori. Keith Haring, Al Diaz e Jean Michel Basquiat ai tempi in cui si faceva chiamare ancora Samo. New York era pazzesca. Concerti, incontri, innovazioni. Nel quadrilatero in cui abitavo passavano artisti di ogni genere. Li conobbi e mi salvai.
Poi tornò in Italia.
christopher makos jean michel basquiat may 29 1984 photographs prints and multiples other
Nel marzo 1981, davanti a un hotel di Washington, un uomo sparò sei colpi contro Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti da poco più di due mesi. Ne feci un film di 17 minuti montando e rimontando istericamente l’istante dell’attentato e vinsi il primo premio al Festival di Torino.
Erano anni di videoinstallazioni molto sperimentali e pauperismo totale. Lavoravamo con gli spezzoni delle tv private locali, assemblavamo frammenti del Tenente Colombo o de L’incredibile Hulk e non avevamo niente. Un tipo della Cisl, un amico, quando gli era possibile ci allungava la sua telecamera per girare qualche immagine qua e là. Fu così che provai a filmare il mio primo videoclip.
In quegli anni conobbe anche Pier Vittorio Tondelli.
Enrico Palandri che aveva scritto Boccalone, un libro eccezionale e Pier Vittorio erano stati allievi di Gianni Celati al Dams. Tondelli era un altro genio, un intellettuale raffinatissimo, molto divertente e molto legato al suo tempo. Capiva la realtà, la sentiva, sapeva raccontarne le evoluzioni.
Avrei voluto trarre un film dal suo primo libro, poi scelsi di affrontare l’universo di Pazienza. Anche se gli altri mi sconsigliavano di osare: ‘Ma sei impazzito? Ma come ti permetti di sfiorare il lavoro di Andrea?’ il mondo di Paz, che a differenza di Tondelli era stato immediatamente riconosciuto da Oreste Del Buono come un artista destinato ad affermarsi, lo conoscevo bene.
Jean Michel Basquiat secondo Van Der Zee
Con Tondelli la critica era stata meno benevola. Fenomeno passeggero si disse dopo la pubblicazione di Altri libertini.
Se penso a Tondelli o all’atteggiamento toccato a un altro poeta sottovalutato come Freak Antoni, non mi stupisco. La critica difficilmente coglie le novità. Al massimo si limita a celebrarle a tempo debito. Tondelli se l’è goduta. Per lui vale il detto di Che Guevara riadattato da Andrea Pazienza.
Quale?
Non tornare mai indietro neanche per prendere la rincorsa.
Si identifica?
Completamente. Non ho derogato al principio neanche quando dopo l’esperienza de La prima linea chi fossi e dove andassi me lo sono chiesto.
Aveva provato a raccontare la formazione terroristica partendo da Miccia corta, il libro di Sergio Segio, tra i fondatori del gruppo terroristico responsabile a fine Anni 70 di sedici morti e oltre cento attentati.
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Pensavo che dopo trent’anni se ne potesse parlare. Pensavo male. Per raccontare una storia che sentivo in qualche modo di conoscere ho pagato conseguenze durissime.
Ha scontentato tutti. Stato ed eversori.
Sono stato bravissimo a non avere nessuno dalla mia parte. Il clima era tremendo, l’anteprima mondiale, per dire, l’abbiamo fatta a Toronto.
Lei ha girato anche per la tv.
Iniziai con Distretto di Polizia. Più di venti episodi. Me lo propose Pietro Valsecchi che cercava registi di cinema da far lavorare in televisione. C’erano sceneggiatori pazzeschi come Fois e Romagnoli e una grande libertà di fondo. Oggi guardiamo alle serie americane, a Homeland come a House of cards e le eleggiamo giustamente a strepitosi modelli narrativi, ma in quella tv dominata da Il Maresciallo Rocca, sia detto con il massimo rispetto per Gigi Proietti, Distretto di Polizia fu una mezza rivoluzione e un’esperienza entusiasmante.
La vita oscena è solo il suo quinto film per il cinema.
Da ragazzo avevo l’ossessione delle date. Sapevo a memoria la data di esordio di Coppola nel cinema o l’età in cui Bertolucci aveva girato Ultimo Tango a Parigi. Poi ho esordito anch’io. Non avevo e non ho fretta.
Nella pause può sempre recitare. In Aprile e ne Il Caimano, per Nanni Moretti, l’ha fatto senza imbarazzi.
Nanni era fan de Il trasloco, un mio documentario sulla casa di Via Marsili, a Bologna, in cui erano passati tanti volti del Movimento studentesco, da Bifo in poi. Un giorno mi convoca e mi chiede di fare un provino per Aprile. Vado, mi presento, vengo richiamato.
La scena si svolge durante il compleanno di Moretti.
Ed è divertente, ma un po’ masochistica. Gli regalo un metro da muratore: ‘Questi sono cento centimetri, quanti anni compi Nanni?’. Lui risponde e io accorcio la fettuccia. Insisto: ‘Quanti anni pensi di vivere ancora?’. Lui risponde nuovamente e io accorcio ulteriormente: ‘Ti rimane solo questo, datti da fare’. A fine scena Nanni è in Vespa, aggredito dal rimpianto: ‘Ma non potevo dirgli che desideravo vivere fino a novant’anni?’.
Tipica doglianza morettiana.
Due anni fa, in un aeroporto, mi si avvicina uno: ‘Ma lei è l’attore che regala un metro a Nanni Moretti in Aprile?’, ‘Sì, come fa a ricordarselo?’. ‘Quella scena mi è rimasta impressa, mi sono scosso, licenziato e sono andato a produrre olio su un’isoletta’. Non volevo crederci.
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Dal suo metro cosa si aspetta?
Avendo disperso molto, mi aspetto tantissimo. Non so se sono diventato adulto, ma voglio fare almeno due bellissimi film. Chiedo troppo?