Malcom Pagani per ‘Il Messaggero’
ROBERTO DAGOSTINO DAGO E PAOLO VILLAGGIO FOTO MARCELLINO RADOGNA
Essendo la morte tra i suoi temi favoriti e Le memorie del sottosuolo il suo libro preferito, Paolo Villaggio con la dipartita sapeva giocare: «L'ora della morte, per trovare spazio sui giornali è importantissima. Se muori entro la prima serata, forse fai in tempo a farti ricordare, se te ne vai ai bordi della notte il posto è occupato e ti dedicano una breve». Paolo Villaggio, scomparso ieri a Roma a pochi mesi dagli ottantacinque anni, mentiva sapendo di mentire.
Gaudente e dissipatore, poetico e cinico, masochista e sadico, generoso e schiacciato dall'angoscia, coltissimo e incontinente nei vizi che metteva in evidenza negando in un gioco di specchi le tante virtù, Paolo Villaggio, un genio, parola abusata per troppi, ma non per lui, mancherà soprattutto agli inconsapevoli.
DECLASSAMENTO
A chi non l'ha conosciuto o a chi l'ha colpevolmente ignorato, declassandolo per ignoranza o superficialità a una sola dimensione. Mancherà ai demoni da cui si faceva inseguire e sicuramente non mancherà a se stesso perché se esisteva un uomo che non amava Paolo Villaggio quello era proprio lo stesso Villaggio.
Con una profonda cognizione del dolore e uno sguardo tragico sull'esistenza, Villaggio aveva comunque saputo divertirsi e divertire con quella maschera impiegatizia che rappresentò il riscatto e l'immedesimazione di un intero mondo di reietti. Con il destino nell'ascendenza, nelle stelle e nella metamorfosi del linguaggio (il padre era un astronomo siciliano «molto più intelligente di me» diceva lui, la madre una glottologa veneziana) Villaggio si imbarcò per la sua avventura illuminata dalle luci del set, sfuggendo da quelle al neon di un qualunque ufficio.
Era stato assunto da una società vicina all'Iri, si diede malato per due settimane, tornò «con un'abbronzatura ripugnante» e andò felicemente incontro «da licenziato in tronco» a un altro orizzonte. Lo colorò con l'arguzia, con il talento, con le navi da crociera divise con un giovane Berlusconi, con l'osservazione che sarebbe piaciuta a Zavattini. Fantozzi esisteva davvero, si chiamava Bianchi, lavorava in un sottoscala ed era un uomo: «Che aveva fatto studi profondissimi per riuscire a non pensare a niente per sei ore filate».
MASCHERE
PAOLO VILLAGGIO IN FRACCHIA LA BELVA UMANA
Maschere simili a Don Abbondio, icone senza coraggio che lui non sentiva di biasimare e con le quali, nel suo aristocratico esplorare, avvertiva una certa bizzarra empatia: «Fracchia era uno che lavorava con me all'Italsider. Si chiamava in realtà Verdina. Un uomo fisicamente mostruoso. Non brutto. Un tipo amaro. Calosce, ombrello. Uno che si incavolava da matti. Che non sopportava le ingiustizie. Urlava, imprecava. Diceva: Qui bisogna parlare una volta per tutte. Bisogna andare dal capo, dirgli in faccia quello che merita. E noi: Allora vai su a dirglielo. Fracchia non esitava: Ma certo che vado. E dopo gli crollava tutto addosso».
Dopo decine di film, libri, interviste, viaggi e funerali immaginati: «Quello di De André è stato il più invidiabile della storia, il potere delle persone si misura dalla magnificenza delle loro esequie» era arrivata anche per Villaggio, la decadenza. La avvertiva. La sentiva come una ferita. Più come un dato ineluttabile, tra immobilità e sordità, che come un'ingiustizia.
E le restituiva un ruolo fondamentale, non avendo neanche il conforto di poterne parlare con un altro esperto della materia, Fellini, legandola alla depressione di tanti compagni di strada che da un giorno all'altro si erano scoperti tristi, indifesi e abbandonati: «Gli amici non mi chiamano più anche perché vivo a Roma. I romani hanno un senso dell'amicizia diverso dai liguri. Sono papalini, sono sudditi, sono sempre stati costretti a credere in dio e quindi a fingere. Ti abbracciano e ti lodano, poi appena ti allontani di qualche passo si sussurrano: Poveraccio, hai visto come si è ridotto?».
Villaggio era sempre stato un osservatore lucido e spietato. Lucido e spietato nell'autodistruzione (il diabete fatale, certo, ma anche le notti insonni, la bulimia, il darsi alle esperienza proibite come un Lucignolo fuori porta in caffetano e sandali) e lucido davanti al declino.
Irene Ghergo, la sua amica più cara, ha perso in pochi mesi due perni della sua vita. Prima Boncompagni e ora Villaggio. Dice che non ce la fa più a ricordare i defunti, ma dopo parla e ti trascina in Val Pusteria, nei primi anni 70: «Il luogo che Paolo amava di più al mondo. Mentre con gli sci di fondo ai piedi arrancavamo verso Dobbiaco mi diceva: Ti rendi conto, stiamo vivendo i momenti più felici della nostra vita e non lo sappiamo neanche».
Chissà se negli ultimi giorni, Villaggio ripensava a quello schermo bianco, al sole del confine o alle boutade che a intervalli regolari esorcizzavano il trapasso: «Ho già predisposto il finale. Verrò a passare le ultime ore a Sori, sulla riviera ligure, dove sono i miei genitori, mi farò cremare e poi una ragazza giovane mi butterà nel mare che amo tanto. Altrimenti, se diventa complicato, ho già pronto un ristoratore che mi farà bollire per ore».
FABRIZIO DE ANDRE PAOLO VILLAGGIO
Quelle liete c'erano state e nel condominio a due passi dalla Via Cassia, non c'erano più. Ghergo sostiene che Villaggio fosse un maestro di vita straordinario e un uomo angosciato da se stesso. E che quell'angoscia volesse fartela pagare a ogni costo: «Riuscendoci sempre».
Perché Villaggio era un manifesto dell'eccesso. Studiava da cattivo, ma trasformava la cattiveria in arte. Era un campione della catarsi. Per l'immense frivolitè de la mort, al pari di Proust, non avrebbe voluto madeleine, né discorsi. Tanto «i vecchi - giurava - quando imbiancano, non vuole ascoltarli più nessuno».