A PALAZZO CARPEGNA UN INCONTRO PER GLI 80 ANNI DI FRANCO CORDELLI
Dal “Corriere della Sera – ed. Roma” - ESTRATTO
Stasera alle 18.30 a Palazzo Carpegna, sede dell’Accademia Nazionale di San Luca (piazza dell’Accademia di San Luca 77) incontro in occasione dell’ottantesimo compleanno di Franco Cordelli — scrittore e critico teatrale, da oltre trent’anni firma del «Corriere della Sera» — a quasi un anno dalla pubblicazione del suo ultimo libro Tao 48 (La Nave di Teseo).
I critici letterari Giulio Ferroni, Raffaele Manica e Giorgio Montefoschi parleranno dell’opera letteraria di Cordelli e della sua carriera. L’attore Umberto Orsini leggerà alcune pagine dell’autore. Titolo dell’omaggio, Cordelli 48 , a richiamare quello del libro. Introduzione di Francesco Cellini.
CORDELLI , PER PASSIONE
Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” - ESTRATTO
Franco Cordelli, con che spirito ti avvicini al tuo compleanno?
«Ma sai, penso che dopotutto ho campato ottant’anni e non è andata male: ho rischiato la vita almeno tre volte e quindi sono grato alla fortuna o agli dèi. Per quel che resta da vivere, sapere che è poco è tuttavia confortevole. Dà una certa serenità».
Stai parlando della serenità di chi ha fatto ciò che voleva fare?
«Direi piuttosto che sono riuscito a non fare quel che non volevo fare. È così. Negli anni scolastici, dalle medie fino ai primi anni di università, il mio pensiero ossessivo era: nella mia vita non lavorerò, e ci sono riuscito».
Da ragazzo pensavi di fare lo scrittore?
«Ricordo perfettamente un dialogo con un compagno di università. Eravamo sotto una tenda in campeggio, e parlando del più e del meno gli dissi: vedi, non riuscirei mai a scrivere un libro del genere. Mi riferivo a Memoriale di Paolo Volponi, era il 1962».
A quell’epoca già ti piaceva scrivere?
«Subito dopo il liceo andai a trovare una mia compagna di scuola a Bocca di Magra. Avevo un quaderno a quadretti su cui scrivevo a mano, come ho poi sempre fatto. Quel quaderno cadde in acqua: cadde o ce lo buttai, ma se cadde non capisco perché me lo portai in mare… Quando lo tirai fuori, era tutto cancellato».
Quanto hanno contato per te le amicizie?
«Devo premettere che non sposarmi non era un mio proposito, come quello di non lavorare, anzi, anzi… Con la mia primissima fidanzatina, una compagna di liceo alla quale rimasi legato dai 16 ai 23 anni, parlavamo di matrimonio. Un giorno, era la Vigilia di Natale 1965, mi disse che era incinta di un altro uomo e così l’idea del matrimonio decadde».
Mai più pensato al matrimonio?
«Non credo per la delusione, ma da allora non ci ho più pensato, per quanto io poi sia stato lungamente fedele agli amori… Sai, il matrimonio è la famiglia, non c’è niente da fare. Sto leggendo per la terza volta Il dottor Zivago , ecco in quel romanzo l’idea di famiglia è così radicata, così centrale come raramente si legge in un libro contemporaneo».
Quell’idea di famiglia ti è estranea?
«È diventata per me l’idea di fraternità. Quando mi chiedi degli amici, io ti rispondo che gli amici sono stati e sono la mia famiglia. Purtroppo, molti non ci sono più e ne sento la mancanza, però quelli che ci sono continuo a pensarli come la mia famiglia. Una cosa diversa da quella di Pasternak, ma le si avvicina».
Di quali senti la mancanza?
«Ti faccio quattro nomi. Maurizio Grande, che è stato un grande critico, l’esegeta principale di Carmelo Bene, morì nel ’96 per un incidente stradale. Ugo Margio, che è stato un importante regista sperimentale. Un altro regista e sceneggiatore, Emidio Greco, che cito come autore de L’invenzione di Morel e Notizie degli scavi. E Stefano Magagnoli, con cui ho vissuto a Milano per vent’anni e che è morto troppo giovane secondo me per la stupidità del mondo in cui viveva, quello editoriale».
E Dario Bellezza non era un tuo amico?
«Ci sentivamo fai conto tutti i giorni, tutti i giorni. Anche con Valentino Zeichen. Non li ho citati perché le nostre storie si erano già consumate, in modo naturale, non drammatico».
Narrativa, critica letteraria e teatrale, giornalismo, poesia: da dove hai iniziato?
«Tutto è cominciato con la poesia, ne leggevo in modo quasi eccessivo, la cercavo ovunque, la scovavo nelle riviste, tanto che poi deflagrò nelle serate al Beat ’72 e a Castelporziano. Con il passare degli anni è quella che si è consumata di più e oggi leggerla è diventato difficile. Il teatro è stato occasionale: non prevedevo di fare il critico teatrale, è stata una fortuna peculiare essere invitato da Elio Pagliarani a scriverne per “Paese sera” , e poi piano piano è diventato una vera passione mentre scemava quella per la poesia. Ho fatto una piccola ricerca e ti prego di scriverlo: l’unico vanto è che credo di essere il critico teatrale più longevo della storia d’Italia. Siamo al 54° anno: ho cominciato nel settembre 1968».
Il giornalismo?
franco cordelli allen ginsberg peter orlovsky david gascoyne a ostia nel 1979
«Si è complicato e si è impoverito rispetto all’idea di giornalismo che abbiamo vissuto nel Novecento, ma la passione è rimasta. Qualche giorno fa ho letto un’intervista di Aldo Cazzullo a Rahul Gandhi e mi ha entusiasmato. Devo però aggiungere un’altra passione, legata a quello che forse è il mio primo ricordo. Abitavo ancora a Porta Pia, avrò avuto nove anni e passando davanti al cinema Europa dove era annunciato un certo film ho pregato di essere ancora vivo il giorno dopo per poterlo vedere. Oggi vedo un film al giorno. Non dico che ho tanti dvd quanti libri, perché è impossibile, però...».
Cosa ti appassiona del cinema oggi?
«Credo che il cinema francese continui a sottrarsi al nuovo stile delle serie televisive.
Penso ad autori come Olivier Marchal e Jacques Audiard, ma anche Louis Garrel. È il cinema che viene dalla nouvelle vague , su cui mi sono formato. Il film però che, da molto tempo ormai, amo di più è All That Jazz di Bob Fosse.
castelporziano. ostia dei poeti
Italiani?
«Mi sono formato anche su Fellini e Antonioni. La dolce vita e 8½ sono i film della mia vita. Sono andato al funerale di Fellini senza averlo mai conosciuto».
Potresti dire con la stessa precisione i tuoi romanzi preferiti?
« Sotto il vulcano è il romanzo in assoluto che ho più amato. È un romanzo che rovescia la tradizione ottocentesca, ponendosene al limite mentre si pone anche al limite della modernità. Oltre non si può andare. Ecco perché è un libro davvero disperato. Nessun contemporaneo di Malcolm Lowry è tanto disperato. Si salvano tutti, perfino Kafka e Beckett».
Che cosa intendi quando parli di disperazione in letteratura?
«Si può scrivere anche avendo una fede e lo si fa spesso, ma non amo quei libri. La letteratura che mi interessa di più è quella in cui non c’è speranza se non nella vita giorno per giorno, nel momento in cui stai vivendo. Non mi suicido, quindi scrivo. Eccola la disperazione della scrittura».
Altri autori imprescindibili (e disperati)?
«Mi ricordo di aver scritto per gli amici e poi rinnegato e poi di nuovo recuperato la mia lista dei preferiti. Avrò avuto quarant’anni: c’erano James, Nabokov, Landolfi, lo stesso Lowry e Lawrence Durrell. Dicevo: questi sono gli autori che ho amato, ma ora basta. Qualche anno dopo ho riletto James e mi sono detto: ma sei scemo, come fai a ripudiare Henry James?».
E adesso?
«Oggi non li ripudio affatto, ma quel mondo lì, gli autori della modernità, sento di averli talmente assimilati che se provo a rileggerli, e ci provo, dopo un po’ smetto perché è come se leggessi me stesso».
Dunque, cosa preferisci leggere?
«Da un paio d’anni, mi entusiasmo con Il giardino dei Finzi-Contini o Il dottor Zivago .
Mi piace, lo dico con una parola terribile, la loro semplicità, che è tutt’altro che semplicità naturalmente, è una misura. Sono scrittori che non hanno mai bisogno di stupire. Un altro libro a cui torno sempre, per le stesse ragioni, è Il gattopardo , anche se sono tutti romanzi per struttura e stile molto diversi fra loro».
E molto diversi dal tuo modo di scrivere.
«Sì, è proprio questo: qui scopro un altro mondo, un mondo che non conoscevo. Detto quasi con brutalità, è il mondo della mia vecchiaia, direi più sereno, anche se l’aggettivo è assurdo... Diciamo che quel che c’era da capire con quei libri l’ho capito, i sottotesti ormai li conosco. Era come se concentrandomi sui sottotesti avessi dimenticato il testo».
Che cos’è il sottotesto?
«È qualcosa che il testo non dice in modo esplicito, lo dice per vie traverse o lo tace e lo si può percepire soltanto attraverso la musica della parola. È qualcosa di non dicibile o traducibile, che si può immaginare o solo percepire.
Una potenza musicale che produce emozione, e ciò che conta, alla fine, è l’emozione».
Chi altri vale la pena scoprire o riscoprire?
«Saul Bellow è un caso particolare della mia vita: durante l’università qualcuno mi chiese di fare una tesi di laurea a pagamento su Bellow per una ragazza. Eravamo all’altezza di Herzog , scrissi quella tesi, e questo ti dà la misura di quanto Bellow fosse dentro di me. Poi un po’ si ripete e forse per questo l’avevo dimenticato.
Ma rileggendo Herzog dopo sessant’anni, ne ho sentita la potenza, una potenza della voce indubitabile che non trovo nemmeno in Philip Roth, che pure ho amato».
Faulkner non lo metti tra i tuoi preferiti?
«Figuriamoci, L’urlo e il furore, Mentre morivo, Sartoris … E su un racconto come L’orso c’è da rompersi la testa… Ma un autore che metto sullo stesso piano di Pasternak e Bassani è Orwell, perché non pone problemi di sottotesto, è ciò che dice e ciò che dice mi basta e mi dà gioia. Anche pensare alla sua vita disgraziata e breve mi dà un senso di solidarietà. Penso non ai suoi libri di fantascienza, ma a Senza un soldo a Parigi e a Londra , a Fiorirà l’aspidistra e a La strada di Wigan Pier» .
È una questione di stile?
«Certo, lo stile è la questione dominante. Inutile usare, per la letteratura, aggettivi tipo “semplice”, “immediato”, “spontaneo”, che farebbero inorridire chiunque».
Perché hai dedicato un libro a Piovene?
«Se penso a Le furie e a Le stelle fredde , lo sento come lo scrittore che sull’Italia mi ha detto di più. È uno scrittore sommamente ambiguo, ma è quello che sull’ambiguità, sul carattere e sulla storia d’Italia dopo l’unità ha detto meglio».
E la tua passione per Flaiano?
«L’altro giorno sono riuscito finalmente a vedere il documentario che fece a puntate per la Rai, Oceano Canada , l’ultimo suo lavoro. Io Flaiano l’avevo intravisto di persona fuggevolmente una sera nella folla del Teatro Giulio Cesare di Roma e vederlo nel documentario mentre cammina e parla è stato come incontrarlo davvero per la prima volta…
A parte che ritengo Tempo di uccidere un capolavoro, ma Flaiano mi commuove proprio per quello che non è riuscito a scrivere, sento la disperazione della sua intelligenza. Il poemetto finale, La spirale tentatively , dice tutta la tragedia della sua vita, dalla malattia della figlia fino all’attesa della morte. E in ogni frammento autobiografico del Blu di Prussia non puoi non amarlo e sentirlo fraterno».
Ripensando al tuo percorso narrativo, che pensiero te ne sei fatto?
«Il libro di cui sono più contento, proprio perché assomiglia di più a libri come Il giardino dei Finzi-Contini , è La marea umana . Amo meno i primi tre, Procida , Le forze in campo e I puri spiriti, perché mi sembra che ci sia una volontà di stupire. Uno dei mali, anzi il male dell’avanguardia è questo».
Non è che oggi la voglia di stupire è diventata un obiettivo primario della letteratura?
«Forse, ma più che di voglia di stupire parlerei di circo. Mentre in passato la voglia di stupire veniva da una ricerca sul linguaggio, oggi è l’esigenza di giocare sull’effetto sorpresa dei temi, dei personaggi, dei luoghi, delle trame».
Quali sono i benefici dell’avanguardia?
«La letteratura deve andare verso l’avanguardia, o meglio doveva, visto che sono molto scettico sul futuro della narrativa. L’avanguardia è sempre la rottura di uno schema precedente, è come una scoperta scientifica che apre nuove prospettive».
Dopo i primi tre libri le cose per la tua scrittura sono cambiate?
«Pinkerton è il libro più difficile che io abbia scritto: ne esistono sette versioni diverse ed è stato l’unico mio romanzo che ha avuto un certo successo. Merito del fatto che fu pubblicato da Leonardo Mondadori in un momento felice dell’editoria e della narrativa italiana».
Gli altri tuoi romanzi?
«Cosa posso dire? Non li rinnego ma non ci penso mai, né a Guerre lontane né al Duca di Mantova che pure mi è costato un processo pesante da parte di Cesare Previti e la rottura con il mio editore, Einaudi. Ridicola, perché penso che Berlusconi se avesse letto quel libro si sarebbe pure divertito».
«Una sostanza sottile» è il tuo libro più autobiografico?
«Parla del fatto che la morte mi è passata sotto gli occhi ed è fuggita via, o forse sono fuggito via io. E poi c’è un amore platonico, per una figlia che non ho mai avuto, e l’amore platonico in ultima analisi è la mia vera idea dell’amore. L’amore che dura nel tempo, in cui l’anima vince sul corpo, mettiamola così».
Perché dici di non vedere un grande futuro per la narrativa?
«Si scriveranno sempre romanzi, forse per l’eternità, ma sono scettico sul futuro per il banale motivo che si scrive troppo. È chiaro che quando la quantità tende a superare la qualità, questa non è che muore ma si va esaurendo e trovarla per il lettore diventa impossibile».
Questo mette in crisi il senso della critica .
«Perché, esiste ancora la critica? Per carità, potrei farti dieci nomi di gente che scrive ancora eccellenti saggi critici, ma non vuol dire niente. Potrei anche citarti bei libri recenti: che so, Nuoto libero di Julie Otsuka, un grande romanzo di una giapponese che vive negli Stati Uniti, ma è uno su un milione, non uno su dieci, e trovarlo è un colpo di dadi. La letteratura migliore, quella che esprime una verità — non la verità, ma una verità — è condannata a rimanere sommersa».
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