Marco Molendini per Dagospia
I miti non invecchiano, resistono al tempo che passa. Specie se hanno la scorza dura come quella di Bob Dylan. Difficile perfino immaginarlo mentre spegne le 80 candeline del suo compleanno circondato dalla famiglia. Forse lo ha fatto o lo farà oggi, probabilmente con disagio, lo stesso che proverebbe a guardarsi allo specchio. L’immagine riflessa mente, Robert Zimmerman non è Bob Dylan e 60 anni dopo la distanza è ancora più profonda. L'uomo è inesorabilmente segnato dal tempo, il mito non è stato scalfito dal successo, neppure dalle oscillazioni (la sbandata iperreligiosa) o dall’invidia, quel Nobel che ha scatenato chi non lo ha avuto (che sono la grande maggioranza).
Quel narcisista di genio indisponente e indisponibile di Robert Zimmerman lo ha protetto con gli aculei di un istrice e con una stabilità senza concessioni, lo ha nascosto, ha spinto Bob a sfidare diabolicamente i fans con i tanti concerti ermetici che trasformavano i suoi manifesti musicali in geroglifici. Gli ha fatto conquistare una nobiltà artistica che si basa sul prestigio più che sui numeri (il disco più venduto è Highway 61 revisited con 17 milioni di copie: molte, ma poche rispetto a tante altre star musicali).
E' l'impronta di chi ha dilatato l'idea la forma canzone fino a trasformarla in un vero manifesto, capace di interpretare epoche e momenti in modo indelebile. Dalla prima esplosione di rabbia con Like a rolling stone, pietra miliare (altro che pietra che rotola), atto di ribellione contro la ribellione (come venne definito), alla lunga lancinante filippica Murder most foul, 17 minuti lanciati in piena esplosione covid, annuncio della lunga agonia a cui saremmo andati incontro e che ancora nessuno si aspettava così insopportabilmente lunga.
Cosa può fare di più la parola scritta? Per questo Dylan è diventato il più grande e celebrato dei cantautori, il più influente, il più premiato e il meno incline a concedersi alle premiazioni (ha fatto sospirare perfino l'Accademia del Nobel), restio a mettersi all'ombra del proprio monumento mentre, sotto il suo immancabile cappellaccio, ha continuato ad andarsene in giro. Come farà ancora a 80 anni compiuti. Una sfida, un desiderio insopprimibile di misurarsi con il consenso, mentre al consenso si sottrae.
È stato bloccato dal covid, ma sarà solo una parentesi, per quanto prolungata. Il viaggio infinito riprende il suo cammino: nonno Bob, che già minaccia di lasciare ai posteri un seguace musicale di famiglia, Pablo il più grande dei nipoti, è pronto a ripartire da questo autunno e nel 2022 lo aspetta un nuovo sbarco in Europa (Italia compresa) con la sua collezione di canzoni. Negli ultimi concerti americani (dicembre 2019) apriva sempre cantando Things have changed (Le cose sono cambiate), una canzone di vent'anni fa, ma quel verso «Lot of water under the bridge, lot of other stuff too/ don’t get up gentlemen, I’m only passing through» sa tanto di autobiografia contemporanea: «È passata molto acqua sotto i ponti, molto altro è accaduto/ non alzatevi signori, sono solo di passaggio».
Quando arriverà, avrà 81 anni. Sotto i ponti sarà passata altra acqua, come ne è passata tanta in sessant'anni, dall'uscita del primo disco (inciso nell’autunno del ‘61 e pubblicato a marzo del 62) passato nell’indifferenza e dal primo sbarco Oltreoceano. Era un ragazzino ventunenne innamorato e affrontò un viaggio che combinava affari sentimentali e un impegno artistico. Allora gli aculei di Robert Zimmerman non dovevano essere tanto ispidi: correva dietro a una donna che gli aveva fatto girare la testa e lo aveva profondamente influenzato, Suze Rotolo (una ragazza figlia di genitori comunisti, il cui impegno lo ha sicuramente contagiato). L'aveva incontrata al Village e si era presentato nascondendo il suo vero nome: «Mi chiamo Bob Dylan», le aveva detto ancora prima di diventare qualcuno e di certificare all'anagrafe il cambio di generalità.
A Londra registrò un play televisivo della Bbc, The Madhouse on Castle Street, dove recitava la parte di Lennie, uno studente anarchico che cantava alcune canzoni a commento del plot narrativo. Un debutto televisivo (è rimasto solo un frammento audio molto rovinato) e anche di una canzone destinata a segnare la sua storia, Blowin' in the Wind, usata per accompagnare i titoli di apertura e di chiusura. Era il 4 gennaio 1963, il programma sarebbe andato in onda la settimana successiva, ma quello stesso giorno Bob volò in Italia alla ricerca di Suze, di cui non aveva più notizie. Pensava che fosse a Perugia, dove studiava, invece la ragazza era ripartita per gli Stati Uniti per riabbracciarlo.
Così Bob restò a Roma qualche giorno dove c'era la sua amica e sostenitrice Odetta, la grande folksinger nera (ospite in quei giorni della Rai a Studio uno). Girò per la città, finì di scrivere un paio di canzoni, Girl from the north country e Boots of Spanish leather, destinate al disco che stava facendo, The Freewheelin' Bob Dylan, ne scrisse una che si chiama Going back to Rome, mai incisa e suonata, a quanto si sa, soltanto una volta al Basement of Gerde’s Folk City di New York l'8 febbraio del '63. Chissà se sono i pezzi che cantò al Folkstudio, nella sua seconda sera romana, quando si affacciò nel locale di via Garibaldi gestito dal pittore americano Harold Bradley.
Potrebbe anche aver aggiunto Blowin' in the wind, ma i pochi testimoni diretti latitano, anche se con il tempo i presenti a quella serata come tante si sono magicamente moltiplicati. E' stato quello l'ultimo viaggio da sconosciuto di Bob Dylan, aveva 22 anni, la sua voce, era meno roca ma già graffiante: «È passata molto acqua sotto i ponti, molto altro è accaduto/ non alzatevi signori, sono solo di passaggio».
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