Paolo Nori per “Libero quotidiano”
''Quando siete felici, fateci caso'', la raccolta di discorsi di Kurt Vonnegut appena uscita per minimum fax (pp. 106, euro 13) mi ha fatto venire in mente il quinto degli otto consigli che Vonnegut dà agli aspiranti scrittori in un testo intitolato «Come scrivere con stile» (pubblicato in Benvenuta nella gabbia delle scimmie, SE), questo: «Lo stile di scrittura per voi più naturale tende a riecheggiare il linguaggio che sentivate da bambini. (…) lo scrittore cresciuto in Irlanda è davvero fortunato, poiché l'inglese che si parla là è molto divertente e musicale.
Io sono cresciuto a Indianapolis, dove il linguaggio comune sembra una sega a nastro che taglia lo stagno galvanizzato. (...). Io stesso trovo che la mia scrittura è molto più convincente quando do l’idea di essere in tutto e per tutto una persona che viene da Indianapolis, che è ciò che sono. Che alternative ho? Quella raccomandata con grande veemenza dagli insegnanti ha senza dubbio assillato anche voi: scrivere come un inglese colto di cento e più anni fa».
In Quando siete felici, fateci caso (il titolo originale è If This Isn't Nice, What is?), mi sembra che Vonnegut applichi questo consiglio di Vonnegut, cioè qui Vonnegut riesce a dire con una lingua piana, diretta, umile, delle cose che difficilmente si potrebbero dire altrimenti, come (la traduzione è di Martina Testa): «Siamo animali fatti per danzare». Oppure: «Fate l’amore ogni volta che potete. Vi fa bene».
Oppure: «Di regole io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo». Oppure: «Chi crede nella telecinesi, mi faccia alzare una mano». Oppure: «Se ho offeso qualcuno di voi parlando male di Thomas Jefferson, cavoli vostri». Oppure: «Se dovessi ricominciare da capo, sceglierei di passare di nuovo la mia infanzia all’incrocio fra la Quarantaquattresima Strada e North Illinois Street a Indianapolis, nell’Indiana. Rinascerei in uno degli ospedali della città, e sarei di nuovo il prodotto delle sue scuole pubbliche».
O ancora: «Un insegnante una volta mi chiese: “Cosa fanno gli artisti?”. Io farfugliai qualcosa. “Fanno due cose”, disse lui. “Primo, riconoscono che non possono rimettere in sesto l’intero universo. Secondo, fanno sì che almeno una piccola parte sia esattamente come dovrebbe essere. Un mucchietto di argilla, un rettangolo di tela, un pezzo di carta o quello che sia”».
O altrimenti: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe. Si potrebbero fare esaminare tutti i candidati da alcuni psichiatri. Ma chi vorrebbe mai fare lo psichiatra, se non uno scoppiato?».
Il libro di Kurt Vonnegut non era convincente
E: «Alcune di voi diventeranno madri. Non ve lo raccomando, ma sono cose che capitano. Se dovesse capitare a voi, consolatevi con queste parole del poeta William Ross Wallace: “La mano che dondola la culla governa il mondo”». O, ancora: «Mark Twain, alla fine di una vita di profondo valore, per la quale non aveva mai ricevuto un premio Nobel, si chiese per quale scopo vivevamo tutti quanti. Tirò fuori cinque parole che lo soddisfacevano. Soddisfano anche me. E dovrebbero soddisfare voi. “La stima dei nostri vicini”».
Quando uscì il libro più celebre di Vonnegut, Mattatoio numero 5, il preside del comitato scolastico di Drake, nel North Dakota, ne bruciò delle copie nel forno della scuola. Vonnegut gli scrisse una lettera parte della quale è riprodotta nell’introduzione (di Dan Wakefield) a Quando siete felici, fateci caso. «... se lei si prendesse la briga di leggere i miei libri», scrive Vonnegut, «di comportarsi come una persona istruita, scoprirebbe che non sono erotici, e non promuovono atteggiamenti indisciplinati di alcun tipo.
Pregano i lettori di essere più gentili e più responsabili di quanto spesso sono. È vero che alcuni dei personaggi usano parole volgari. Ma è perché la gente usa parole volgari nella vita reale. A usare parole volgari sono soprattutto i soldati e gli uomini che fanno lavori pesanti, e questo lo sanno anche i bambini tenuti più al riparo dal mondo. E tutti noi sappiamo anche che certe parole in realtà non danneggiano molto i bambini. Non hanno danneggiato noi quando eravamo piccoli. Sono state le cattive azioni e le bugie a farci del male».