Marco Giusti per Dagospia
tilda swinton e luca guadagnino
Venezia. Sì, facciamo rumore, facciamo un Bigger Splash, citando il celebre quadro di David Hockney. In un festival così parruccone, in tutti i sensi, a cominciare dai film proprio con le parrucche, come The Danish Girl, o dai critici in sala che si eccitano se li porti al Louvre con Sokurov, più in là non vanno, o con gli ermellini, come L’Hermine, l’idea di un film rock che deve fare rumore, anche se la protagonista, celebre cantante, è quasi muta, anche se non sono i profughi che sbarcano in Sicilia e muoiono tutti i giorni a far fracasso, anzi loro muoiono nel silenzio più totale e disturbano anche la coscienza dei giornalisti, irrompe davvero fragorosamente.
Perché A Bigger Splash non è solo il miglior film di Luca Guadagnino, che presentò qui, fuori concorso Io sono l’amore, nell’indifferenza, anzi fastidio, dei Mereghetti & co., o il miglior film visto finora al festival, è il miglior film italiano visto da molti anni a questa parte e sicuramente il film internazionale che pensavamo di poter fare e non sapevamo fare. Perché è scritto e costruito in inglese, da David Kajganich, e non in italiano e poi tradotto per le star del momento, imitando il Fellini della Dolce vita e di 8 ½, perché non si serve di un celebre film del passato, La piscina di Jacques Deray, con due star meravigliose di allora, Alain Delon e Romy Schneider, per farne una rielaborazione museale (come usiamo oggi il cinema del passato? che importanza ha per noi?), ma rielabora quel che gli serve del plot del film di Deray, il quartetto snob dei protagonisti, la piscina, il delitto, il sole, per fare proprio un’altra cosa.
Prende i quattro attori più cool del momento, Ralph Fiennes, Tilda Swinton, Dakota Johnson, Matthias Schoenarts, li porta a Pantelleria, proprio oggi in mezzo agli sbarchi e alla tragedia continua dei profughi, e li fa esplodere in una serie di conflitti fra identità e ego maschili e femminili (incredibilmente è anche il film più virile del festival), rapporti padre-figlia, manager-artista, ma anche solo uomo-donna, facendo commentare il tutto non dalla passione museale del cinema, ma dalla musica ancora viva dei Rolling Stones.
A Pantelleria, sotto gli occhi di un’Europa che si limita a raccogliere profughi morti e vivi sulle coste del Mediterraneo, come nascondendoli sotto il tappeto, si consuma un conflitto fra un quartetto di americani interessati solo a loro stessi e alla sottomissione gli uni degli altri. Guadagnino capovolge i ruoli del vecchio film di Deray, e fa del personaggi che fu di Maurice Ronet, interpretato qui da Ralph Fiennes, il vero motore della storia.
E’ lui Harry, padre della giovane, bella e vergine Penelope, Dakota Johnson, a irrompere nelle vacanze della sua ex, la rock star senza voce Marianne, Tilda Swinton, e del suo nuovo compagno, il più giovane Paul, Matthias Schoenarts, documentarista sfigato. Harry si crede un Dio-Padre, come Orson Welles nel vecchio film di Claude Chabrol, La decade prodigeuse, è stato lui a spingere Paul tra le braccia di Marianne, che lui stesso ha costruito come star.
E ora la rivuole, vuole imporre la sua presenza e la sua potenza. Mentre la figlia Penelope fila una tela ancora più pericolosa. In un festival dove l’unico tema dei cineasti di oggi sembra essere il rapporto uomo-donna (una novità…), anzi tra la creatività maschile e quella femminile, con la supremazia dei personaggi femminili su quelli maschili obbligati a mettersi in scena come donne, a scomparire nel ricordo dell’amore, la virilità eccessiva e esibita, quasi mitologica di Harry, irrompe prepotentemente sullo schermo e ci risveglia dal torpore.
A Bigger Splash è un film bellissimo che non può che far del bene al nostro cinema, anche se molti dei nostri critici si sforzeranno solo di farselo piacere. Dominato da un Ralph Fiennes strepitoso, che ha col proprio personaggio un corpo a corpo continuo che non ci permette di non esserne affascinati, e da un cast di grande potenza, anche Dakota Johnson qui è una vera attrice, è un’opera che non ha bisogno della musealità di Sokurov e di finta letteratura. E’ solo cinema. Grande fotografia di Yorick Le Saux e gran montaggio di Walter Fasano. La presenza di Corrado Guzzanti può essere fraintesa dai nostri critici. Ma è più sottile e ironica di quel che appare.