Charles Mcgrath per "La Repubblica" (Traduzione di Elisabetta Horvat
© 2013 The New York Times)
La via degli eccessi conduce alle dimore della saggezza, scriveva Blake: una via che in questi ultimi decenni nessuno a Hollywood ha percorso più assiduamente di Quentin Tarantino. I suoi film sono diventati celebri per l´estrema violenza e lo spargimento di sangue, la frenesia delle colonne sonore, l´eccentricità dei dialoghi, le sfavillanti interpretazioni di attori pressoché dimenticati e le infinite, enciclopediche citazioni di altri film, meglio se di bassissima lega.
INTERVISTA A QUENTIN TARANTINO SUI FILM VIOLENTI QUENTIN TARANTINO FOTO ANDREA ARRIGAA differenza di altri registi usciti dagli istituti d´arte cinematografica, Tarantino, quarantanove anni, s´è formato lavorando come commesso in un videonoleggio. E si vede. È capace di creare un´inquadratura con un richiamo a Godard per citare poi in quella immediatamente successiva filmacci del tipo Dead Women in Lingerie. Grazie a Pulp Fiction (1994), con il quale ha sfondato poco più che trentenne, è diventato un eroe per il pubblico giovane e le nuove leve di cineasti. I film successivi, e in particolare Kill Bill vol. 1 e 2, hanno poi consolidato la sua fama di regista capace di rompere tutte le regole. Il suo ultimo, Django Unchained, ha già raccolto due nomination all´Oscar (anche come miglior film) e cinque (una per la miglior regia) ai Golden Globes che si assegnano stanotte.
L´appuntamento è per colazione, al Village, da Fiddlesticks, uno dei suoi pub preferiti. Tarantino arriva vestito come uno dei personaggi del suo primo film, Le iene. Camicia bianca, completo scuro. Come la cravatta, allentata intorno al collo.
QUENTIN TARANTINO FOTO ANDREA ARRIGAIn vent´anni ha girato soltanto otto film. Perché?
«Per me sono sette, dato che Kill Bill diviso in volume 1 e 2 è un unico film».
Molti registi ne avrebbero sfornati il doppio o il triplo nello stesso arco di tempo.
«È una scelta. La mia opera è ciò che più mi sta a cuore. È la mia testimonianza artistica, se così posso dire. Perciò è fondamentale mantenere un determinato standard. Basterebbe un film scadente per abbassare il livello medio e penalizzarne altri tre. Non ho intenzione di diventare un vecchio che continua a girare film. Per me un regista è un po´ come un pugile: deve capire quando è venuto il momento di appendere i guantoni al chiodo. Se invece uno continua, magari perché ci prova gusto, rischia di dover incassare troppi colpi. Questo è uno sport per gente giovane. Potrei tirare avanti altri vent´anni, ma intanto guarda la mia filmografia: credo di poter dire che non c´è male».
Indubbiamente, ma si può sempre far di meglio.
«Certo, è quello che spero. In realtà penso di avere davanti altri dieci anni di carriera con la vitalità che ho oggi. E da qui a dieci anni, spero che potrà vedere, a partire dalle Iene fino all´ultimo che riuscirò a girare, qualcosa come un filo ininterrotto, un unico cordone ombelicale. Ciò detto, in questo campo non si possono fare previsioni. Se anche a sessantasei anni mi verrà in mente una storia per un film, lo farò».
Quali dei suoi film preferisce?
«Non saprei scegliere, ma posso analizzarli da diversi punti di vista: spettacolare, scenografico o emotivo. In quest´ultimo senso, secondo me Jackie Brown è al primo posto; il secondo, lo assegnerei probabilmente a Kill Bill a pari merito con Django».
Il solo film col quale non ha sfondato è A prova di morte.
«Eppure a me continua a piacere, anche se certo è il meno riuscito. Mi auguro di non scendere mai sotto quel livello».
Ha una predilezione per i film di genere.
«A mio parere tutti i film sono di genere. Le iene è un giallo. E più volte ho parlato di Pulp Fiction come di uno spaghetti western in salsa rock´n´roll con musica surf al posto di Morricone».
Talvolta i suoi detrattori sostengono che i temi dei suoi film non sono tratti non dall´universo reale, ma da quello cinematografico. Eppure gli ultimi due si occupano di nazismo e schiavismo: è un cambio di rotta deliberato?
«Non mi sembra di aver fatto un grosso salto di qualità, per il semplice fatto che, a mio parere, c´è nei miei film qualcosa di più di quanto il pubblico in genere sia disposto a vedere. Chi non vuole approfondire le implicazioni delle mie storie può farne a meno. Ma se si scava più a fondo, c´è molto da scoprire».
Riesce sempre a fare in modo che gli attori diano il meglio.
«Innanzitutto, i personaggi che creo sono stimolanti per loro. D´altra parte la mia scelta è sempre rigorosa: l´esatto contrario di chi è disposto a compiacere qualunque attore ansioso di far parte del cast. In altri termini, per me il personaggio che ho in mente conta molto più di questo o quell´attore. Detto questo, so anche come si dirigono gli attori, so come modularli per ottenere risultati ottimali. Infine, ho le idee chiare sul materiale che ho per le mani. Quando poi li vedo in uno stato di grazia e mi rendo conto che stanno facendo qualcosa di magnifico, ho l´accortezza di scansarmi».
Ha riscoperto attori che si credevano ormai fuorigioco. Da John Travolta a Pam Grier, Samuel L. Jackson e Robert Forster: tutta gente ripescata quando nessun altro pensava a loro.
«Ricordo che un anno e mezzo dopo aver girato Jackie Brown, un grosso produttore mi chiese se, col senno di poi, non pensassi che avrei fatto meglio a scegliere attori più quotati. Ma se basta il mio nome a invogliare il pubblico, non ho bisogno di superdivi per lanciare un film».
Per quale motivo tende a chiamare sempre gli stessi attori?
«Anche tutti i miei registi preferiti tendevano a servirsi sempre dello stesso gruppo di interpreti. Quelli che lavorano con me sono in grado di comprendere il mio mondo, di capire il senso di ciò che dico, il mio metodo. E poi piacciono ai miei fan, che sono sempre contenti di rivedere quelle facce ormai familiari».
Sul suo conto esiste una vera mitologia: si dice che sia un autodidatta che ha imparato tutto sul cinema facendo il commesso in un negozio di video e leggendo moltissimo.
«Vero: ho letto tantissimo, soprattutto fiction, montagne di tascabili, qualunque cosa, purché fossero storie avvincenti. Aprivo il libro, leggevo qualche pagina, e se mi sentivo coinvolto me lo portavo a casa. Molta letteratura cinematografica, ma anche romanzi. Di alcuni autori ero letteralmente innamorato. In particolare di J. D. Salinger. E ho amato molto alcuni libri di Larry McMurtry. Mi piace soprattutto perché le sue storie sono sempre ambientate in un particolare universo; e capita che il personaggio principale di un suo romanzo riemerga, magari a otto anni di distanza, come protagonista di un´altra vicenda».
Così come il personaggio di Mr. Blonde delle Iene potrebbe aver lavorato per Bill in Kill Bill.
«Sì, è una mia scelta collocare sempre le vicende che racconto all´interno di un "Quentin Universe", un mondo tutto mio».
I suoi testi dicono che siano più simili a romanzi che non a sceneggiature.
«Infatti, è così. Nel mio lavoro di scrittore e in quello di regista seguo due percorsi paralleli. Quando scrivo una sceneggiatura, in realtà non penso a quello che sarà il film, ma alla pagina scritta. È ciò che s´intende per letteratura. So bene che una parte di quanto scrivo non potrà mai entrare a far parte del film, ma voglio ugualmente che resti nel copione. Deciderò poi se sia il caso di girare questa o quella scena, ma per me è comunque importante averla scritta. Quando finisco di scrivere una sceneggiatura voglio che sia qualcosa di valido in sé, tanto da avere la tentazione di fermarmi lì, di rinunciare addirittura a fare il film. Perché se mi fermassi in quel momento, sarei io il vincitore. Ma al momento di girare è raro che vada a rileggerla, se non per riprendere i dialoghi».
È vero che ha lasciato la scuola dopo le medie?
«Sì».
Senza rimpianti?
«Se ho smesso di studiare così presto, è perché sapevo pochissimo della vita e del mondo. Ero convinto che la scuola sarebbe stata sempre uguale a ciò che conoscevo: non mi rendevo conto della grande differenza tra la scuola media e la vita degli studenti nei college. Certo, potrei anche vantarmi di essere arrivato a questo punto da autodidatta. Di fatto però, penso che quella del college sarebbe stata un´esperienza divertente».
Nei suoi film, la musica è qualcosa di più di un semplice sottofondo.
«Gli spaghetti western mi hanno influenzato per molti versi, e in particolare per il modo di usare la musica, che a volte salta in primissimo piano. C´è in me qualcosa che mi fa desiderare di lasciarmi andare di tanto in tanto a questi grandi effetti di tipo operistico. Un po´ come se uno racconta una storia mettendo in fila tutti gli elementi, e a un certo punto accade l´equivalente di ciò che in un musical potrebbe essere un grande numero di danza o una sequenza musicale a tutto volume. Ecco, penso di aver imparato questo dai film italiani. Se parliamo di colonna sonora, sono io a decidere: posso metterci tutto quello che voglio.
Certo, se in un film come Bastardi senza gloria Shoshanna accendesse la radio e ne uscisse David Bowie, sarebbe qualcosa di strampalato e anacronistico. Non dico che non si possa fare, ma devi avere in testa un´idea precisa, l´importante è cogliere nel segno. Ho una collezione enorme di musica, in una stanza accanto alla mia camera da letto: sembra un negozio di vinili d´annata, tappezzata di poster e zeppa di dischi, divisi per generi. È una parte importante del mio think tank. Quando mi metto a scrivere un nuovo film, o inseguo una trama e incomincio a costruirla dal nulla, vado nella stanza dei dischi a cercare uno spunto musicale. Se trovo qualche brano, ho già fatto i primi passi verso quello che sarà il film. Anche se magari quei brani o quelle canzoni alla fine non saranno nel film».
TARANTINO PITTI suoi film danno l´idea di sapere di essere dei film, non cercano neppure di fingersi qualcosa di diverso.
«C´è una frase ricorrente in ognuno dei miei copioni: a un certo punto un personaggio si rivolge a un altro dicendo "dobbiamo stare dentro a questo ruolo"».
Perché?
«Non lo so. Faccio volentieri questo tipo di analisi sui film degli altri autori; ma non sta a me analizzare il mio lavoro, chiedermi perché faccio determinate scelte».
Dopo Django?
«Non so ancora quale sarà la prossima fermata. Avevo incominciato a scrivere un racconto, anzi: un vero romanzo. Per ora sono al terzo capitolo. Ricordo un´osservazione di Pauline Kael, grande critica cinematografica americana. È probabilmente ingiusto, scriveva, mostrarsi severi nei confronti di un regista di talento che ha cercato di fare un film grandioso, e giudicare invece con più indulgenza le opere poco impegnative di autori meno talentuosi.
Affrontare un soggetto di vasta portata vuol dire andare incontro a un grosso rischio. Se cerchi di fare qualcosa senza esserne all´altezza, e non riesci a cogliere pienamente nel segno, chi prima vedeva solo il tuo talento ora scopre le tue lacune. Ecco, io ho sempre cercato di forzare questi limiti. Sono disposto a rischiare di sbattere la testa contro il soffitto del mio talento, a mettermi veramente alla prova, anche se poi sarò costretto a dire: ok, non sei poi tanto bravo. Certo, non voglio toppare. Ma sono sempre disposto a correre questo rischio, ogni volta, fin dal primo giro di manovella».