Alberto Mattioli per la Stampa
«Tino» era sconosciuto ai più, non a chi conosceva bene Luciano Pavarotti. La storia inizia nel gennaio 1995. Edwin Tinoco era un ragazzo peruviano di 28 anni, con una laurea in Scienza della Comunicazione e un lavoro come «food and beverage manager» all' hotel Las Américas, il più lussuoso di Lima.
il libro di edwin tinoco su pavarotti
In Perù transitò Big Luciano prima di un concerto rimasto celebre per l' esordio: «Saluto il pubblico cileno!» (e davvero solo lui poteva farsi acclamare dopo una gaffe del genere). Al tenorissimo quel ragazzo sveglio, gentile e capace di fare un po' tutto piacque tanto che lo arruolò su due piedi nel suo staff multicolore e multinazionale. E così Edwin diventò «Tino» per tutti, tranne che per il maestrone che lo chiamava «Ciccio», affibbiandogli un soprannome che sarebbe stato più adatto a lui. Per il giovane, che non aveva mai ascoltato un' opera, fu l' inizio, parole sue, dei «tredici anni migliori della mia vita».
Adesso quegli anni sono diventati un libro, Pavarotti ed io (Aliberti, pagg. 256, 18,90), chiaramente indispensabile per gli adepti del culto pavarottiano e piuttosto divertente per tutti gli altri. Tinoco rimase con Pavarotti fino alla fine, quel maledetto 6 settembre 2007, svolgendo una serie di mansioni indefinibili ma indispensabili, da maggiordomo a facchino, da segretario a cameriere, da confidente a infermiere, da cameriere ad agente di viaggi, testimone immancabile e discreto, fino a diventare una specie di figlio adottivo.
Lo racconta comunicando al lettore il senso di sbalordimento di un ragazzo che uno dei primi giorni sollevò la cornetta del telefono e sentì dall' altra parte una voce inconfondibile: «Sono Frank, c' è Luciano?». Frank chi, scusi?
«Frank Sinatra».
edwin tinoco ai funerali di pavarotti
Non aspettatevi rivelazioni sensazionali, benché gli ultimi anni di Pavarotti siano stati anche quelli più gossippati. Ma la seconda moglie, Nicoletta Mantovani, compare relativamente poco. Gustoso però l' incontro con la prima, Adua Veroni, nel camerino del marito alla Royal Albert Hall di Londra durante un «Pavarotti plus» del '95. Nicoletta andò dritta al punto: «Signora Veroni, lei deve sapere che le voci che circolano sono vere: io e Luciano ci amiamo».
Poi però Tinoco uscì dal camerino, quindi non sappiamo come proseguì la conversazione.
Poco dopo, sarebbero arrivate le foto di Chi con Luciano e Nicoletta alle Barbados «a mollo in un mare di coccole», per citare il titolo del servizio, al seguito delle quali lui fu letteralmente buttato fuori di casa dalla moglie.
Molto divertente è entrare nell' intimità domestica del tenorissimo. Negli alberghi in cui sostava la suite doveva essere riarredata ad hoc con cucina, frigorifero gigante, divano rialzato di 20 centimetri, una tavola di legno sotto il letto, finestre oscurate con la carta stagnola, cuscini e lenzuola rigorosamente neri e un tavolo rotondo con quattro sedie per la briscola, la sua vera passione.
Si faceva seguire in tutto il mondo dagli amici del «briscola team», giocava fino a un momento prima di entrare in scena e anche durante l' interminabile ricevimento del secondo matrimonio ogni tanto spariva per fare la partita (e noi invitati: ma dov' è finito lo sposo?).
Ogni viaggio era un trasloco, con una media di 40-50 valigie portate su e giù per il mondo.
pavarotti con adua veroni e figlie
Pavarotti si spostava con pentole, scorte gigantesche di cibo italiano, quattro frac identici (ma sul palco indossava sempre lo stesso, per scaramanzia), foulard Hermès, scarpe Mephisto, talco Shower to Shower, tre speciali sgabelli regolabili di fabbricazione francese e La settimana enigmistica .
Alle prove, ai concerti e alle recite, sempre 20 asciugamani grandi, 10 medi e 10 piccoli, caramelle marca Grether' s (succhiate per la verità da tutti i cantanti lirici), magliette e camicie di ricambio, fazzolettoni bianchi, acqua ghiacciata, tè bollente, parmigiano, consommé e mele rosse tagliate a pezzetti che era bravissimo a ingurgitare anche durante l' esibizione, mascherando la manovra dietro i ricordati fazzolettoni.
luciano pavarotti nicoletta mantovani
Alla fine, esce il ritratto di un gigante buono, un Gargantua dalla voce d' oro ingordo di cibo, di amore, di musica, di sport.
Prepotente però generoso, non solo di denaro (e pure ne ha raccolto o regalato tanto), ma anche del suo tempo. E qui forse posso testimoniare. Lo chiamavo da cronista sbarbatello e non ci fu una volta che, anche se aveva poco tempo e ancor meno voglia, non mi desse almeno un titolo. Una volta mi disse: «Il segreto del mio successo? Non ho mai negato un' intervista, fosse per il New York Times o per il bollettino della parrocchia».
Forse il miglior elogio che si possa fare al libro è che chi ha conosciuto Pavarotti ce lo ritrova tutto. Almeno quanto, per un beffardo contrappasso che avrà l' ennesima conferma dalle incombenti celebrazioni per il decennale della morte, non lo riconosce nel modo con cui viene ricordato. Una volta di più, si vuol far credere che Pavarotti sia stato una sottospecie di popstar e non quel grandissimo tenore che fu. Forse l' ultimo a incarnare l' assurda bellezza, aulica e popolare insieme, del nostro melodramma.
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