Il Corriere della Sera intervista Raffaele Riefoli, in arte Raf. Nel 1987 ha vinto il Festival di Sanremo come coautore di «Si può dare di più», cantata da Morandi, Tozzi e Ruggeri. Si è aggiudicato due volte il Festivalbar. Racconta di essere stato un ragazzino molto timido e introverso e di esserlo ancora, anche se è migliorato.
«Sono migliorato, eh. Da ragazzino invece ero un disastro. Mi vergognavo, con guance e orecchie paonazze, non riuscivo a parlare, farfugliavo, dicevo sempre la cosa sbagliata. Non mi aiutava avere un padre molto severo, però a quei tempi lo erano tutti. Bastava un niente e volava lo scappellotto. A casa, a me e mio fratello, ci faceva filare. Non voleva che giocassi a pallone, se per caso mi beccava in strada in piena partitella erano guai».
A 9 anni restò folgorato dai Beatles
«Vidi un loro film sulla Rai, c’erano sì e no due canali. Decisi che volevo diventare come loro».
Iniziò a prendere lezioni di piano da una vicina e di chitarra da suo cugino. Poi, a 13 anni, fondò la sua prima band di rock progressivo, che si esibiva anche ai matrimoni.
«Suonavamo rock progressivo, i Jethro Tull, I King Crimson, ma anche il liscio a matrimoni e cene danzanti. Portavo i capelli lunghi e mi scambiavano per una ragazzina».
A 17 anni lasciò la Puglia per andare a Firenze, per amore. I genitori non erano d’accordo con la sua scelta.
«I miei non erano per niente d’accordo con la mia scelta. Mia madre mi mandava qualche soldo di nascosto. Con il tempo sono arrivati pure i barattoli. Il fatto è che gli arrivavano le voci più assurde, si erano convinti che fossi un matto debosciato dedito all’alcol e alle droghe, capirai, al massimo qualche canna. La prima volta che mi hanno visto in tv, presentato come una star internazionale, sono rimasti esterrefatti: mamma piangeva, papà restò impietrito».
A Londra, per poter suonare, faceva il cameriere.
«Nemmeno quello, perché non parlavo bene l’inglese. Ero fermo a «the cat is on the table» e delle ordinazioni non capivo niente. Perciò mi confinarono in cucina, caricavo e scaricavo la lavapiatti. Poi, diventato più bravino, ho fatto il commesso in un negozio di abbigliamento».
Però «Self Control» la scrisse in inglese.
«E dopo chiesi al mio amico Steve Piccolo di rileggere il testo, onde evitare strafalcioni. Cambiò giusto due cosine e firmò la canzone con me e Giancarlo Bigazzi. Quando compongo un pezzo, anche oggi che canto in italiano, lo butto giù in un inglese maccheronico, giusto per catturare il suono».
Fu un singolo che, con la cover di Laura Branigan, vendette 20 milioni di copie. Raf racconta che il successo gli portò anche solitudine.
«Ero scontroso, scorbutico, perché mi sentivo fuori posto. E mi ritrovai più solo. Quando hai successo, sono gli altri che spesso ti vedono diverso. “Ora che è famoso non è più uno di noi”, pensano. E tu non sai mai se la gentilezza di una persona nei tuoi confronti è reale o falsa».
Con Umberto Tozzi sono amici da anni.
«Ci conoscevamo dai tempi di Firenze, quando lavoravo con Bigazzi come producer. Per dieci anni a Roma siamo stati vicini di casa, facevamo le vacanze insieme. È ritardatario, perché è lentissimo. Per farsi la doccia ci mette una vita, anche a tavola mangia con somma calma, gli altri hanno finito e Umberto è ancora al primo. Lui, peraltro, mi rimprovera la stessa cosa, dice che il ritardatario sono io. E a volte è vero».
Cosa è restato di quegli anni Ottanta?
«La leggerezza, sdoganata dopo la lunga stagione dell’impegno. Si è finalmente capito che non è obbligatorio essere sempre seri e profondi. E che pure la banalità a volte ha il suo dannato perché».
RAF RAFFAELE RIEFOLI UMBERTO TOZZI