Valentina Dirindin per “la Repubblica” - Estratti
A Ferran Adrià, uno dei cuochi più grandi del mondo, cucinare non è mai davvero piaciuto. «A ElBulli avevo tre chef di cucina, come tutti. La verità è che uno chef pensa alla parte teorica, a quella creativa, all’organizzazione. Cucinare non mi entusiasma, ma adoro mangiare: con mia moglie proviamo 250 ristoranti all’anno, e in fondo quando mangi stai cucinando, con la testa».
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Ferran Adrià, dove va la cucina mondiale?
«Oggi ci sono quattro Paesi nel mondo che stanno facendo la differenza: Francia, Italia, Giappone e Spagna. C’è poi il fenomeno Danimarca, con i suoi quattro o cinque ristoranti incredibili, ma ci vorranno ancora molti anni prima che questo si traduca in qualcosa di diffuso.
Il tema però non è dove, ma come. In Spagna abbiamo 70 mila ristoranti, in Italia qualcuno in più: nel mondo sono milioni. Quanti di questi fanno davvero la differenza a livello creativo? Cinque? Il mio lavoro ora è capire perché e come sono arrivati al massimo livello. Stiamo parlando della Formula Uno della cucina, e nessuno sa ancora come funzioni».
A che punto è il progetto di El Bulli?
«Quest’estate abbiamo inaugurato il museo, e a maggio lo riapriremo per andare avanti fino a ottobre. Siamo felicissimi: chi lo ha visitato si è emozionato e ha avuto la possibilità di comprendere meglio un luogo dove la produzione creativa è stata fuori dal comune. Molta gente ne ha sentito parlare ma non sa esattamente cosa sia successo lì».
Cosa è successo?
«Che siamo stati i primi a teorizzare la creatività e l’innovazione nella gastronomia, ma siamo stati così stupidi da non dare un nome a tutto questo. Tutti chiamavano la cucina di El Bulli “molecolare”, ma la verità è che è un termine che non significa nulla. Il gastronomo Pau Arenos la definì “tecnoemozionale”, ma chissà perché nessuno ha mai adottato questa definizione. Noi, con la cucina tecnoemozionale, abbiamo d avvero cambiato la cucina internazionale: la lezione più importante che abbiamo introdotto sono i menu degustazione lunghi, con gli amuse bouche e gli avant dessert .
Oggi li mangi in tutto il mondo, ma fino al ‘96-‘97 nessuno proponeva più di cinque, massimo sette portate. Innovazioni concettuali, ma anche pratiche, come l’introduzione del biberon per le salse o dell’estrattore per i fondi».
E adesso, dopo tutto questo innovare?
«Me lo sono chiesto anche io. Non è stato facile trovare una sfida: in tutti questi anni abbiamo lavorato a Bullipedia , un progetto enorme fatto di cose che quando avevo aperto El Bulli ancora non comprendevo. Ora quello che posso fare è migliorare da un punto di vista teorico il sistema creativo che abbiamo costruito, per poi condividerlo con le nuove generazioni. Quando ho iniziato il lavoro a El Bulli ho trovato diversi buchi da riempire. La domanda che mi faccio oggi è: quali buchi ci sono ancora? Da diversi mesi, ormai, dedico otto ore al giorno a trovare la risposta».
In che modo la cerca, questa risposta?
«Leggendo e analizzando quello che sono oggi la creatività e la ristorazione gastronomica. Studiando quei luoghi che sono arrivati ai livelli più alti, perché non c’è nessuno che lo sta facendo: c’è troppo poco tempo, esperienza e metodo. Parliamo di René Redzepi, ad esempio: nessuno fino a ora ha davvero analizzato i suoi libri a livello creativo. Io l’ho fatto, ed è stato subito molto più chiara la grande rivoluzione che ha fatto».
Quale sarà l’applicazione di questo lavoro?
«Un nuovo corso all’università di Madrid, per cominciare. E poi chissà. Le università gastronomiche hanno un grande futuro: tra una decina d’anni ne avremo centinaia nel mondo, e da lì usciranno quelli che faranno questo lavoro nei prossimi anni. Noi dobbiamo dar loro gli strumenti su cui studiare, il sapere da trasmettere: è esattamente a questo che sto lavorando».
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