ARTICOLI CORRELATI
Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” - Estratti
Tre anni alle stelle, lanciato a tutta velocità, e poi quella velocità ti travolge.
Riki è stato l’artista che ha venduto più dischi del 2017, quando è uscito da Amici : dopo palazzetti pieni e firmacopie stracolmi, nel 2020 è pressoché sparito. «C’è stato un momento di down importante, in cui ero solo», esordisce lui, oggi 32 anni, pronto a raccontarsi come un fiume in piena. E a raccontare «Casabase», il suo nuovo disco in arrivo in primavera, «frutto del periodo di rinascita».
Ripartiamo dall’inizio.
«Ho vissuto tre anni molto importanti dove però non ero padrone del mio destino, infatti tante volte sfogavo la solitudine e la rabbia, la gabbia dorata in cui mi sentivo, nell’essere impulsivo. Così ho fatto un po’ di cavolate. Dovevo per forza seguire le logiche del mercato e a un certo punto mi sono incagliato».
Quando è successo?
«Succede piano piano, non te ne rendi conto subito perché intanto le cose vanno velocissime e non puoi fare pause. Non voglio dare la colpa alle persone che avevo intorno perché veniva anche da me: era un sistema drogato e volevamo sempre di più».
Oggi gli artisti parlano di più di salute mentale.
«E meno male. Succede a tanti, so come ci si sente e non l’ho mai voluto dire per paura: ero orgoglioso, molto competitivo. Non avevo il coraggio di dire “sono in crisi, non sto bene”, ma poi vedi che non puoi farcela da solo e tante persone al tuo fianco non ti supportano come potrebbero».
Aveva la sensazione che la stessero «spolpando»?
«Sì, non posso dire altrimenti, ma lì per lì sei assuefatto. Invece bisogna avere il coraggio di fare scelte controcorrente. E poi è importante un team che creda nel progetto, come quello che ho ora».
Prima era seguito da Francesco Facchinetti.
«Sì, ma era un team che non avevo scelto io. Dopo un talent, i primi che ti contattano e ti danno sicurezza, li prendi. Con Francesco quando le cose andavano bene era tutto meraviglioso, ma a volte sentivo di voler fare determinate cose che lui non mi passava o magari aveva semplicemente altre idee».
A Sanremo, nel 2020, arrivò ultimo. Influì nella crisi?
«Ero già in crisi. Io non avrei voluto farlo, ma ero talmente assuefatto che dicevo sì a tutto. In quel periodo volevo proprio auto-sabotarmi, quindi non c’erano i presupposti. Sul palco non stavo bene, ero asettico, non sentivo la tensione. Poi, due settimane dopo, è scoppiata la pandemia e, nel male, quello mi ha costretto a fermarmi».
Ora ci tornerebbe?
«Sì, ovvio che mi farebbe piacere. Me la giocherei in un altro modo, più maturo e consapevole, più gentile e luminoso. Ma se non fosse, non importa. Si va pian piano».
Ha dato un nome a quel che le è successo? Si è trattato di depressione?
«Essendo stata una cosa graduale, ti accorgi dopo di essere caduto in depressione. Ora potrei dire di sì perché stavo proprio male. Faticavo a dormire, non avevo voglia di fare niente. Ero svogliato e apatico, non mi impressionava nulla, come fossi avulso e trasparente».
Come ne è venuto fuori?
«Ho fatto terapia per un periodo e poi mi ha aiutato avere altre passioni. Sono laureato in design e durante la pandemia è stato un appiglio. Poi ci sono le persone che ti vogliono bene davvero, e quelle rimangono. Perché tutte le altre, invece, scompaiono: chi scriveva per convenienza, non ti scrive magicamente più».
(…)