Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per “Il Corriere della Sera”
Roberto Vecchioni, com’è avere 80 anni?
«Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni.
Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora. È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella della tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni».
Quali dei sogni che avevi da ragazzo si sono realizzati?
«Nessuno completamente. Si sono realizzati in parte, poi si sono spezzettati, poi realizzati di nuovo. È il ciclo normale dell’esistenza umana: primavera, estate, autunno, inverno. Le settimane che finiscono inevitabilmente con domenica e cominciano con lunedì. La vita del mondo è un ciclo, non esiste una definizione finale o un approdo finale. Questo consente di tenere vivi i tuoi sogni e di poterli realizzare un pezzetto alla volta, oppure di accontentarti di ciò che sei riuscito a fare. […]».
Cosa ti fa pensare la guerra in Ucraina?
«Non c’è lungimiranza. Io vorrei portare Putin davanti ad un prato della pianura padana per fargli vedere quanta erba c’è. Poi tirare su un filo e dirgli: “Questo prato è l’universo, questo filo è la Russia, cosa credi di fare?”. […]».
Immaginiamo che tu possa telefonare a casa tua in un momento della tua vita e parlare con te stesso, quale momento sceglieresti?
«Questa tua domanda mi colpisce. Fuori sacco ti racconto cosa sto scrivendo. Tu non lo dirai mai».
[…] Gli errori che consiglieresti a te bambino di non fare?
«Ne ho fatti tantissimi, anche grandi. C’è sempre gente che dice “no io non rifarei tutto quello che ho fatto”. Ma, in realtà, se fai un’altra cosa, sbagli lo stesso. […] La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro.
Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi». […]
ROBERTO VECCHIONI CON LA MAGLIA DELL INTER
E la musica quando la incontri?
«Ho cominciato perché sentivo a radio Luxembourg canzoni americane, francesi. Sempre per la mia curiosità, la mia voglia di cercare ciò che non sapevo già, ho voluto imparare a suonare la chitarra. Ho tentato di imparare da solo, ma non riuscivo, allora mia mamma che era una donna meravigliosa, mi ha preso un maestro.
Lui insegnava con il solfeggio, io però volevo gli accordi per suonare le canzoni. Dopo quattro lezioni il maestro è tornato da mia madre e le ha detto “Le ridò i soldi, suo figlio di musica non capisce niente”. Così è iniziata la mia carriera». [...]
Sanremo cosa è stato per te?
«Inimmaginabile, quello che è successo. Innanzitutto quel rompicoglioni di Morandi che mi telefonava ogni giorno per farmi andare. È persino venuto a casa mia da Bologna per prendermi per il collo. Io gli dicevo che non avevo brani, che la mia musica con Sanremo non c’entrava niente. Ma lui insisteva. Una sera mi trovavo a Roma per un concerto. Vivevamo un periodo brutto, il 2011, e io ero addolorato per l’Italia. Il portiere di notte dell’albergo mi disse “Professo’, adda passà ‘a nuttata”.
Io ero in ascensore e quella frase mi era restata dentro. Pensavo “questa maledetta notte dovrà pur finire”. In camera avevo scritto già mezza canzone, nella mia testa. Non avevo niente per scrivere e allora ho telefonato al mio arrangiatore e gli ho cantato tutta la canzone per telefono. Il giorno dopo ho chiamato Morandi e gli ho detto: “Gianni, ce l’ho, la canzone”». […]
Anche «Luci a San Siro» e «Samarcanda» mica son da buttare via…
«Luci a San Siro è una canzone d’anima, quelle che vengono fuori così, senza neanche bisogno di ragionare. Samarcanda l’ho scritta tra Milano e Bologna in macchina. Mio padre è morto proprio quando sembrava che stesse guarendo. Era malato di cancro, sembrava guarito, ma nel momento in cui pensavamo che fosse tutto a posto, il destino se l’è preso.
Ho ricordato la leggenda araba del re che salva il suo servo e lo manda in un’altra città per allontanarlo dalla morte. Ho scritto questa storia durante quel viaggio in auto. Ce l’avevo già tutta. Solo che mi mancava uno spunto, qualcosa. Sì, era una bella canzone, però volevo metterci qualcosa che giungesse a tutti. Arrivo a Bologna, a un semaforo. Uno davanti a me frena, all’improvviso, io gli vado quasi addosso e gli urlo “Oh, coglione!” E quell’“Oh coglione” è diventato “Oh cavallo”». […]
C’è un altro brano, quello su tuo figlio Arrigo, morto a trentasei anni due mesi fa: «Figlio chi si è preso il tuo domani /quelli che hanno il mondo nelle mani».
«Questa è una canzone che io amo tantissimo, anche se non è mai andata. Era un ritratto abbastanza preciso di una pubertà, di una gioventù che si lasciava andare. Arrigo aveva tante meravigliose qualità, in primo luogo la sensibilità.
Ma anche tante debolezze, insicurezze, incertezze che non c’era modo di fargli passare e che forse aumentavano nel vedere il padre che aveva successo. Ma qui siamo alla domanda di prima: che strada prendere? Che errore non fare? Rinunciare ai concerti? Non lo so...»
roberto vecchioni francesco rutelli 1
Cosa è stata per te la sua fine?
«Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: “Si impara soffrendo”. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffrendo, sperando di tornare alla felicità. È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e ideali.
E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente. Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox.
roberto vecchioni francesco rutelli
Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no...” hanno risposto. “... abbiamo visto, prendiamo lui”». Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita».
claudio baglioni e roberto vecchioni
«Corro nel tuo cuore e non ti piglio».
«È così per tutti i padri. Il mistero che c’è, dentro un figlio o una figlia, è soprattutto quando lo vedi fare cose che non sono nelle tue consuetudini, non sono comprensibili per il tuo essere novecentesco. Lasci fare, ma non capisci. Quello per un figlio è un amore incosciente, non riesci a comprendere perché, ma sai che devi amarlo, sempre».
La canzone si chiude con una duplice domanda: «Dimmi dimmi cosa ne sarà di te/ dimmi cosa dimmi cosa ne sarà di me».
Che risposta ti dai oggi?
«Lui non lo sapeva, cosa sarebbe stato di sé. Non potevo chiederglielo, però potevo chiedergli cosa ne sarà di me. Nella sua intelligenza avrebbe risposto: “Padre non smettere mai di correre per quella strada, perché è la tua vita”. Mi avrebbe risposto così».
alda merini vecchioni 1 vecchioni roberto vecchioni
roberto vecchioni roberto vecchioni