Filippo Maria Battaglia per "la Stampa" - Estratti
Ha trascorso una vita tra i libri, e la metà di quella vita l'ha trascorsa in Mondadori. Da lì, Gian Arturo Ferrari è entrato e uscito quattro volte, ha iniziato come editor ed è arrivato a fare il direttore generale, chiudendo poi come vicepresidente. Eppure, come racconta a La Stampa mentre si siede su una chiavarina nera del suo studio, quella storia è iniziata con un «cortese rifiuto».
«Mi ero diplomato al liceo Berchet di Milano e pensavo che i miei ottimi voti fossero il perfetto passepartout per entrare in editoria. Non sarebbe stato ovviamente così», spiega, tenendo tra le mani la lettera in cui la direzione del personale - era il 1963 - declinava la sua richiesta ma garantiva di «prenderla in considerazione nel caso di favorevoli circostanze future».
gian arturo Ferrari Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio)
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Ha sempre voluto fare l'editore?
«Leggere era ciò che mi piaceva di più. E dell'editoria mi incuriosiva la macchina: come fare i libri».
Alla Est però non li sceglieva e non li pubblicava. Andò così a Torino alla Boringhieri.
«Il suo fondatore, Paolo, mi prese perché sapevo il greco che lui, da ingegnere, non conosceva. Subito dopo vinsi il concorso per assistente all'Università di Pavia, dove mi ero laureato. Andai a salutarlo, mi chiese: "Quanto sarà occupato?". "Due o tre giorni a settimana". E lui: "Allora gli altri venga qui"».
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A proposito di Calasso, che ricordo ne ha?
«Un uomo con una grande vis comunicativa. Si costruì molto presto il suo mito e poi con altrettanta bravura riuscì a diffonderlo».
L'offerta giusta arrivò invece da Mondadori, come editor di saggistica.
«Sì, anche se all'inizio non volevo andare. Disprezzavo quell'editoria, mi sembrava troppo commerciale, ma accettai per due ragioni: pagavano bene e l'ambiente era poco austero. Passai da un convento a un luna park. Dopo un anno mi trovai a coordinare gente che aveva trent'anni più di me, ma in uno spazio sempre più ristretto, in cui dovevo fare all'occorrenza da capro espiatorio».
Per questo nel 1986 andò alla Rizzoli?
«Sì. C'era tanta brava gente, senza il senso di innata superiorità dei loro simili mondadoriani. Ma avvertivo anche una specie di odore di disfacimento. Ricordo ancora i mobili scompagnati lungo questi interminabili corridoi fantozziani, e infatti proprio lì si era girato il primo "Fantozzi"».
È vero che quando, due anni dopo, tornò a Segrate da direttore editoriale, firmò il contratto a cena?
«Ero insieme a Marco Polillo, che sarebbe diventato direttore generale, nella casa milanese di Carlo De Benedetti, allora proprietario di Mondadori. Arrivati al dolce, non fece l'offerta: tirò fuori direttamente i contratti già compilati. E appena li firmammo, si congedò: "Scusate, domattina devo essere presto a Ivrea"».
Fu proprio De Benedetti che lei cercò per evitare che Mondadori bloccasse la pubblicazione dei "Versetti satanici" di Rushdie dopo la fatwa dell'ayatollah Khomeini.
«Scavalcai tre livelli gerarchici, sarei potuto essere licenziato in tronco. Ma non ebbi dubbi, e non solo per motivi economici: non si può emettere una condanna a morte per ciò che è scritto in un libro».
Rimase in Mondadori anche con l'arrivo di Berlusconi. Interferiva?
«No. È curioso dirlo, ma in realtà si sentiva in soggezione di fronte a quelli che facevano i libri. Nella sua visione, in alto c'erano i "fondatori" (tra i quali si annoverava), poi gli "imprenditori" e, subito sotto, gli "specialisti": quelli, cioè, che sanno fare un mestiere. Una vasta categoria che andava dai centravanti alle manicure, fino a chi faceva libri appunto».
Con la sua «discesa in campo» molti annunciarono di andare via. Gli unici che lo fecero furono Walter Veltroni e Sandro Veronesi.
«Il primo non poteva fare altrimenti, il secondo fu per noi una perdita dolorosa.
Sandro è stato il più paziente nel costruirsi e anche il più fortunato: coi suoi romanzi ha incontrato una vena profonda del gusto italiano, specificamente romano».
Di autori però, grazie ad Antonio Franchini, allora a capo della narrativa italiana, ne trovaste moltissimi: Piperno, Giordano, D'Avenia.
«Con le peggiori intenzioni fu un grande esordio. Piperno era molto timido, una volta per discutere il contratto si presentò con il padre, abituato al commercio internazionale di tessuti».
E Saviano?
«Il merito della scoperta fu di Helena Janeczek e Edoardo Brugnatelli. Quando lo incontrai, vidi un ragazzo candido e spontaneo. Ci intendemmo subito».
Ha detto: «Meglio un buon titolo e nessun libro che un buon libro e nessun titolo».
Un esempio?
«Ero in Rizzoli quando Mario Capanna, uno dei leader del ‘68, mi propose un'autobiografia. Dubitavo, provò a convincermi: "Anche il tassista che mi ha portato qui mi ha detto che quelli erano anni formidabili'". Mi scossi. Formidabili quegli anni era un titolo perfetto, e infatti vendette parecchio».
Il rimpianto più grande?
«Michael Crichton. Per sottrarlo alla Garzanti offrimmo alla sua agente di comprare a scatola chiusa il prossimo romanzo. L'accordo era chiaro: avrebbero fatto loro il prezzo ma non avremmo partecipato a rilanci. Garzanti fu però informata e pareggiò l'offerta. Ci chiesero un rialzo, dissi di no. Il libro ignoto era Jurassic Park».
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A Segrate la chiamavano «Professore».
«Perché nel frattempo professore, di Storia del pensiero scientifico, lo fui per davvero: all'Università di Pavia. Mi dimisi nell''89: erano due destini che alla lunga si rivelarono incompatibili».
Le piaceva essere adulato?
«Certo. Anche se per fortuna, all'interno di Mondadori, l'adulazione non era poi così diffusa».
Dicono che fosse un capo molto esigente.
«Lo ero. Non ho mai sopportato le retoriche del mondo editoriale, in primis quella di sentirsi migliori per il solo fatto di pubblicare libri. È un modo subdolo di rivendicare una specie di aristocrazia. E io non sono un filo-aristocratico, ma un democratico, vero».
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