Estratto dell'articolo di Luca Mastrantonio per "7- Sette" - corriere.it/sette
Incontriamo Emir Kusturica a Belgrado, capitale della Serbia che da un anno sta vivendo una massiccia immigrazione dalla Russia. I giornali la paragonano all’ondata di “bianchi” in fuga dalla Rivoluzione “rossa” d’ottobre.
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Kusturica, cristiano ortodosso dal 2005, non rilascia interviste da tempo, teme strumentalizzazioni per i legami di amicizia con la Russia di Putin: «Meno politica, più Maradona» dice a fine intervista, concessa in occasione dell’uscita in Italia del romanzo dedicato a Peter Handke: L’angelo ribelle (edito da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, che ha in catalogo libri di grandi registi-narratori, da Tarantino a Bong Joon-ho).
Kusturica mescola ricordi reali, come il viaggio a Stoccolma per il Nobel allo scrittore, e voli di fantasia, come quando lo ritrae funambolo sul fiume Drina. E sospeso tra ricordi e nuovi progetti, in questa città-confine a strapiombo sulla Storia, è Kusturica, uno degli ultimi maghi del cinema d’autore.
Partiamo da Maradona. Qual è il ricordo più felice di lui qui a Belgrado?
«Quando è tornato nello stadio della Stella Rossa, dove nel 1982, per il Barcellona segnò un gol di pallonetto incredibile. Mentre lo rievocava, lo descriveva, era felice, come un architetto che mostra l’edificio che ha costruito e tutti ammirano».
Qual è stato il momento più triste?
«Quando è morta mia madre. Il giorno prima aveva parlato proprio con Maradona, e quando lui ha saputo, era triste come se fosse morta sua madre. Mi ha consolato che lei abbia fatto in tempo a portarsi dietro il ricordo bellissimo di quell’incontro».
E quale le è sembrato il momento più triste, nella vita di Maradona?
«Quando è caduto nel buco della cocaina, raccontava che tutto gli sfuggiva, si perdeva i compleanni delle figlie... Ecco, Maradona non ha mai smesso di essere umano, esposto alla tentazioni, cui spesso ha ceduto, senza mai assolversi. Con me parlava della sua vita al passato, pieno di nostalgia, come un poeta, uno scrittore. Penso alla sua morte, è morto da solo, lui che riempiva gli stadi di centomila persone, amato da milioni di fan...».
L’ultima volta che vi siete sentiti?
«Al telefono, lui era a Mosca per i Mondiali, forse nel 2018. Ci siamo messi a cantare... Maradò, Maradò (il ritornello della canzone dei Los Piojos, ndr )».
Le è mai capitato di sognarlo?
«Sì, mentre giochiamo a calcio».
Come nel documentario? Fate a gara di punizioni nello stadio della Stella Rossa.
«No, io sogno che eravamo giovani assieme, che lui era un mio compagno di classe, e che poi giocavamo nella stessa mia squadra di Sarajevo. Vede, prima era solo il mio idolo, poi ci siamo conosciuti e confrontando l’infanzia nelle periferie, la famiglia, i successi e le cadute... ho scoperto che è come aver avuto un amico d’infanzia. Sono stato felice di averlo aiutato, con il film presentato a Cannes, a recuperare la sua immagine. A Brasilia, durante i Mondiali, un giornalista serbo gli portò una mia foto e lui la baciò».
Qual è il ricordo più “kusturiciano” del tempo che avete passato assieme?
«Alla casa di incontri di un suo amico libanese, un club di prostitute, c’era una sala con delle tv che mostravano in loop i gol di Maradona. Mi sono ricordato della prima volta nella mia vita in cui ho visto ragazze bellissime e cercavo stratagemmi per rimandare il bacio o altri atti. È stato come entrare in una casa di incontri per la prima volta... Se sono sfuggito a queste ragazze, bellissime e aggressive è grazie ai suoi gol. Dover scegliere tra la bellezza dei gol e quei corpi nudi mi faceva sorridere, e il sorriso mi ha difeso da queste donne».
Da giovane frequentava bordelli così?
«Sì, ma non era prostituzione. Avevo 16 anni, in un quartiere popolare di Sarajevo dove proliferava la piccola criminalità; c’era un luogo abitato da una comunità un po’ hippie, senza essere hippie, con delle donne bellissime. Alcune le conoscevo, venivano dai bassifondi, erano condizionate a livello psicologico da brutte esperienze. Non lo facevano per soldi, lì. Solo dopo, alcune si sono prostituite, in Italia, costrette dai fratelli, dalla famiglia».
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No. Di chi è?
«Quentin Tarantino. Sia chiaro, lui è nella storia del cinema, ha riscritto le regole, è un Godard americano, con più ironia. Con lui però il cinema ha preso la posizione per cui i rapporti interpersonali non si fondano sulle ripercussioni morali delle azioni, ma su una realtà fatta di ricatti e massacri. È un sistema tratto dalla criminalità occidentale e asiatica. Credo che questo non valga in tutte le parti del mondo e non sarà così in futuro. È reale che le persone si ammazzino senza porsi alcuna domanda? Credo di no».
Immagino preferisca Le Iene a Pulp fiction ?
«Sì. Nelle Iene c’è il senso dell’assurdo mascherato dall’idea del dilemma. Da Pulp Fiction in poi i film sono dominati da un eroe arrogante che uccide senza domande. Dopo Tarantino, la domanda non è uccidere o non uccidere, ma come, e quale musica ascoltare nel mentre. Raskolnikov non c’è, nessuno si chiede “Uccido o non uccido?” Come la canzone dei Clash Devo andare o devo restare. Tutti sono andati via, è ora di tornare a certi dilemmi».
Ne ha mai parlato di persona con lui?
«Quando ci siamo incontrati mi sembrava sotto cocaina, non parlava bene».
Un narratore con cui è in sintonia è Peter Handke, protagonista del suo romanzo L’angelo ribelle . Lo immagina come un falco, un funambolo, un Apostolo, l’angelo del Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, di cui Handke scrisse la sceneggiatura. Com’è nata la vostra amicizia?
«In più momenti. Il primo, quando Underground ha vinto Cannes, nel 1995, sono stato attaccato da molti, in Francia e in Italia, perché mi accusavano di nostalgia jugoslava, lui mi ha difeso, senza conoscermi. Difendeva la libertà di esprimersi attraverso l’arte. Poi ci siamo conosciuti di persona, diventando amici fraterni».
Handke è venuto a Belgrado nel 1999 quando la Nato bombardò la città per costringere la Repubblica Federale di Jugoslavia a ritirare le truppe federali dal Kosovo.
«È venuto sotto le bombe perché voleva scoprire chi fossero queste persone, i serbi, di cui si parlava tanto in Europa in termini negativi, come persone cattive, terribili; voleva vedere con i suoi occhi ciò che stava accadendo nell’emisfero occidentale e ha dato testimonianza dell’esatto opposto, ha incontrato persone per lui catartiche, che non avevano intenzione di rinnegare le proprie idee. Lo ha scritto in Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, dove con un linguaggio comune di straordinaria efficacia descrive la vita della gente comune... Dichiarò di non conoscere la verità, ma di sapere quali fossero i suoi sentimenti rispetto agli accadimenti in corso. Lì è iniziata la sua avventura donchisciottesca in difesa della Serbia, che continua oggi perché non cambia idea, ha una coscienza. E la coscienza è ciò che tiene in bilico tra il caos e l’ordine».
Nel 2019 lei ha accompagnato Handke a Stoccolma per ritirare il Nobel, e lo difese dagli attacchi di criticava le sue posizioni vicine a Milosevic, il silenzio sul massacro di Srebrenica...
«Si pensa che Peter Handke sia un nazionalista. No. Peter Handke è uno scrittore austriaco che ha immaginato la Jugoslavia da lì, al di là delle colline, dall’Austria. Chiudendo gli occhi, immaginava la Jugoslavia come una terra vasta affacciata sul Mare Adriatico, un Paese molto più grande di quello che effettivamente era. Siamo stati tutti catturati da questo suo idealismo in Jugoslavia, è diventato il nostro eroe. E per me è come Maradona, un altro angelo ribelle, uno usa la parola, l’altro il pallone, sono due angeli ribelli, ribelli alla politica mainstream».
Maradona ha sposato la causa di Hugo Chávez, che per il Venezuela è stato una sciagura...
«Maradona come tanti in America Latina ha avuto una brutta esperienza con gli Stati Uniti, dal Guatemala in poi... È tutta una reazione alla politica imperialistica, Chávez compreso. Sfortunatamente, quanto accaduto dopo non è andato nel verso giusto. La reazione di Maradona con Chávez è equiparabile alla vicinanza di Handke verso Milosevic, c’è idealismo, ribellione, fedeltà ai principi. Come mia madre, Handke me la ricorda».
In che senso?
DIEGO ARMANDO MARADONA NEL DOCUMENTARIO DI KUSTURICA
«Lei aveva dei principi inscalfibili, intoccabili, dei culti sacri».
Mi fa un esempio?
«Mia madre rivestiva con il nylon le cose cui teneva, per proteggerle. Come il tappeto cinese in sala e altre cose. Quando chiedevo quando le avremmo utilizzate, lei mi rispondeva di non toccare, perché non era da usare, era un oggetto sacro all’interno del suo universo, la sala. Ci sono oggetti, per chi non fa arte, con cui si vuole dare prova materiale della propria esistenza. Peter Handke dava senso alla propria filosofia con la parola. E la fede cristiana, All’interno della razionalità, dice, non è possibile trovare sentimenti religiosi, perché nella razionalità non si trova Dio. Però, se ci si sposta nella sfera dei sentimenti, è possibile percepire il movimento causato dall’attrito degli Dei. È un concetto su cui fa una scommessa. Mi ricorda Nietzsche, un Nietzsche che crede in Dio. C’è una barzelletta, con Nietzsche che dice: “Dio è morto” e Dio risponde: “Nietzsche muori”. Ritornando al tappeto di mia madre, la sua risposta alla fine era questa: “Lo userete come vorrete, dopo la mia morte”».
emir kusturica disegno di paolo virzi' emir kusturica
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