Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera"
«Le devo tanto. Se il Furio di Bianco rosso e Verdone è diventata un'icona è merito suo e di Alberto Sordi». Carlo Verdone è tra i tantissimi - colleghi, amici, semplici spettatori - che fa i conti con la tristezza provocata dalla notizia della scomparsa, mercoledì mattina, di Monica Vitti, dopo una lunga malattia l'aveva tenuta lontana per vent' anni dalla scena.
Il primo sentimento, dice il regista romano, è la gratitudine.
«Era il mio secondo film. Ma il mio produttore, Sergio Leone, era convinto solo fino a un certo punto del personaggio di Furio. Lo trovava insopportabile, era convinto che il pubblico lo avrebbe odiato.
Fece venire mille dubbi anche a me. Organizzò una proiezione privata a casa sua all'Eur. Invitò Sordi, Monica con Roberto Russo e pure Falcao, appena arrivato alla Roma».
Come andò?
«Applausi e risate di Monica e Alberto. Lei mi volle abbracciare. Sordi parlò tutta le sera con la voce di Furio, e voleva che io pure gli rispondessi così. Leone era ancora incredulo ma gli diede retta. E il tempo ha dimostrato che avevano ragione loro».
Anche molto fiuto, Vitti, oltre al talento formidabile.
«Era molto eclettica, era la sua forza. Ricordo una donna piena di vita e curiosità. Se si sentiva capita, se entrava in empatia si buttava e dava il meglio. Come con Antonioni. Lei voleva fare teatro anche leggero, quando è stata scelta da lui per la trilogia dell'incomunicabilità, si misurò con una prova drammatica molto impegnativa. E la superò alla grande. Straordinaria.
Ero piccolino, i miei genitori erano impazziti per lei, mia madre la adorava. Quella bellezza non convenzionale. Addirittura il difetto della raucedine che lei rese un pregio. In mezzo a attrici perfette con voce impeccabile, lei era fuori dalla norma, lontana dagli standard. Ne ha imposto un altro, il suo. Con le sue risate, i suoi scatti di euforia e anche d'ira. Comunque simpatica».
L'ha vista arrabbiata?
«Ricordo una sera a Ischia, eravamo lì per ricevere un premio. A cena eravamo seduti vicini. Un paparazzo le fece una foto mentre masticava, lei andò su tutte le furie: "Lei è un gran maleducato, butti il rullino". Lui non ne voleva sapere, gli ha fatto giurare che non avrebbe usato lo scatto e si rifiutò di farsi fare un'altra foto da lui. Non sopportava mancanze di rispetto».
A proposito di rispetto, anche il presidente Mattarella ha voluto renderle omaggio nel discorso di insediamento. Oggi e domani alla camera ardente in Campidoglio saranno di certo in tantissimi.
«Giusto così, lei è un patrimonio nazionale, anzi internazionale. Era attrice unica. E le va riconosciuto un merito».
Quale?
«È diventata grande in un periodo in cui il cinema era maschilista, il cinema dei Sordi Tognazzi, Gassman, Mastroianni. Le donne stavano un passo indietro, a parte Valeri, Melato. Però lei aveva uno scatto in più, apparteneva alla gente, ha sempre raccontato donne reali in cui potersi riconoscere».
La malattia, lo ha ricordato anche lei, è stata protetta dalla sensibilità del marito.
«Russo è stato un marito fantastico, premuroso, ha dedicato la vita nell'assisterla con un amore che ha colpito tutti. Nel 2002 scrivevo un film con Piero de Bernardi, che abitava vicino a loro. Lei stava già male, dall'attico vedevamo Roberto che ogni giorno la faceva passeggiare in terrazzo. Commovente. E ricordo con affetto quando capitava di incontrarci. Prendevamo un caffè, mi chiedeva di mia mamma, che sapeva malata di una malattia neurovegetativa, mi raccomandava di farle tanti auguri».
La sua Vitti più amata?
«Tanti ruoli magnifici, L'avventura, Deserto rosso, la grande commedia. Non l'abbiano vista invecchiare. Meno male che esiste il cinema, che ci regala questa illusione di immortalità».
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