Fausto Carioti per "Libero quotidiano"
Fabrizio Rondolino, storico dirigente della Fgci e del Pci, ha scritto un libro ( Il Nostro Pci, Rizzoli) che è due cose insieme. Una storia sentimentale, innanzitutto: i primi amori nella sezione del partito, l' orgoglio di chi si sente dalla parte giusta della Storia, il disincanto e le lacrime del congresso di Rimini, quando l' epopea finì. Raccontata col distacco del tempo e il realismo di uno che non ha mai voluto fare la rivoluzione, ma pur sempre materia per chi era della tribù. Però quelle 445 pagine sono anche un' enciclopedia di nomi, numeri, aneddoti, notizie e tantissime immagini: praticamente l' intera iconografia ufficiale di settant' anni di Pci. Una delizia per qualunque etologo della politica.
Fabrizio Rondolino e, in alto a sinistra, la copertina del suo libro sul Pci Rondolino, partiamo dall' ultima pagina del suo libro: «Quanto alla sinistra, nessuno saprebbe definirne oggi con precisione l' identità, la cultura politica, i capisaldi programmatici, la visione del mondo: si oscilla, si litiga, si naviga a vista.
Sembra che la sconfitta sia oramai l' unico contrassegno identitario rimasto». Da quando lei ha scritto queste parole, Nicola Zingaretti si è dimesso dalla guida del Pd. Otto segretari in quattordici anni, alcuni dei quali hanno fondato partiti avversari. È la mancanza di identità politica che ha portato Zingaretti ad appiattirsi su Giuseppe Conte e i Cinque Stelle?
«Credo di sì. So bene che la politica è fatta di accordi, l' ho imparato da ragazzo nel Pci. Un partito deve avere una identità politica e culturale e sulla base di essa costruire alleanze e strategie. Però non si può scambiare un accordo tattico, dettato dalla necessità, con una prospettiva strategica. Non si può pensare che un nuovo fronte progressista possa nascere dall' incontro tra la sinistra riformista e un movimento qualunquista come i Cinque Stelle».
Dov' è il problema?
«L' idea che la politica sia tutta corrotta, che l' uomo comune abbia una saggezza che le istituzioni non posseggono, insomma la paccottiglia che poi si riassume nel "Vaffa", il manifesto del grillismo, è incompatibile con la sinistra. Il qualunquismo è una delle possibili forme della destra».
Sicuro? Non ha l' impressione che tutto nasca nel 1981 da Enrico Berlinguer, da quella sua teorizzazione della «superiorità morale» del Pci? «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela», disse il vostro segretario. Non trova, già lì dentro, tutti i germi del grillismo?
«Da un lato ci trovo Amadeo Bordiga, il vero fondatore del Pci nel 1921. Era quello della linea intransigente: noi comunisti abbiamo la nostra organizzazione e non dobbiamo mescolarci con nessuno. Dall' altro sì, è vero, ci vedo ciò che dice lei: nell' ultimo Berlinguer c' è una predicazione più morale che politica. E se dici che sono tutti marci tranne te, automaticamente dici che non puoi più fare politica, proprio perché la politica è fatta di accordi. Una posizione assolutamente sbagliata».
Enrico Letta annuncia la candidatura a segretario del Pd
Da lì al giustizialismo, il passo è stato breve.
«Quando la sinistra non riesce a trovare uno spazio politico tende a fuggire nell' intransigenza e nell' isolamento. Il giustizialismo è una forma di estremismo, una scorciatoia per saltare la mediazione politica. La imbocchi quando non hai una tua identità forte».
Così Gianroberto Casaleggio, nel 2014, incitò la piazza giacobina a gridare il nome di «Berlinguer, persona onesta».
«L' eredità di Berlinguer è un elemento costitutivo dei Cinque Stelle, ma secondo me è un "imbastardimento" del suo pensiero. Berlinguer ebbe la sfortuna, anche politica, di morire all' improvviso: non possiamo sapere come si sarebbe evoluta la sua linea. Di sicuro, però, mai avrebbe detto le cose che dicono oggi i grillini».
Né Berlinguer né nessun altro leader ha mai detto di provare «vergogna» per il proprio partito. Non in pubblico, almeno. Zingaretti, dimettendosi, lo ha fatto.
«Mi ha colpito molto. Ogni tanto spunta un nuovo leader che si affranca dal gruppo dirigente e lo addita come conservatore. Lo fece Craxi al Midas, lo fece Occhetto con la polemica contro gli "oligarchi", i vecchi capi comunisti che impedivano la svolta.
Nessuno, però, aveva mai messo sotto accusa l' intero partito, come ha fatto Zingaretti. Il partito è la casa di tutti».
Anche dei militanti e degli elettori. Che devono pensare?
«L' amministratore delegato della Fiat può dire che il capo delle vendite è un fesso, e quindi cambiarlo, ma non può dire che la Fiat fa schifo, altrimenti la gente non compra più le sue automobili. Non so se a Zingaretti quella frase sia sfuggita o se l' abbia meditata, ma in ogni caso mi sembra grave».
Zingaretti non è stato all' altezza della sfida?
«Quando ero nella Fgci nazionale lui era segretario della Fgci del Lazio, e quindi il mio giudizio è velato da questa amicizia. Diciamo che era partito bene, ma poi sul punto cruciale del rapporto con i Cinque Stelle ha sbagliato tutto. Vedo un errore politico, insomma, non un deficit personale».
E adesso arriva Enrico Letta. Ieri ha detto che serve «un nuovo Pd». Ma la linea politica resta quella, e sul suo carisma e sulla sua capacità di trascinare il popolo della sinistra i dubbi sono leciti.
«Io penso invece che la linea del partito cambierà, e anche di molto.Per cultura e storia politica Letta è un riformista europeo, un "ulivista" in grado di restituire al Pd la sua vocazione originaria: essere la casa di tutti i riformisti, ambire a rappresentare la modernità e a guidare la trasformazione».
Letta aveva detto di non volere «la unanimità», ma «la verità». Lo hanno eletto segretario con 860 voti favorevoli, 2 contrari e 4 astenuti.L' unanimità l' ha avuta, è la verità che manca.
«L' unanimità, per definizione, è nemica della chiarezza. Ma il Pd è messo talmente male che è comprensibile che accolga Letta con un voto unanime. Quel voto, insomma, mi sembra più il segno delle difficoltà in cui si trova il Pd che l' indicatore dell' ipocrisia con cui di solito si saluta un nuovo leader. Si aggrappano a lui perché è l' ultima possibilità che hanno».
Che deve fare Letta per risollevare il Pd?
«Ascoltare tutti e decidere da solo».
Ma è mai nato, il Pd? O è ancora una semplice alleanza elettorale tra post-comunisti e democristiani di sinistra?
«È nato, eccome. Solo che è durato una stagione molto breve: il tempo della segreteria di Walter Veltroni. A partire dal discorso con cui al Lingotto, nel 2007, lanciò la candidatura, il suo è stato un tentativo, anche ben costruito, di rifondare il riformismo italiano, portando a fusione la tradizione ex comunista e quella della sinistra dc. Non una semplice somma, ma la preparazione di un piatto nuovo partendo da quei due ingredienti. Aver lasciato la guida del partito è una cosa che a Veltroni non perdono».
Veltroni si dimise nel febbraio del 2009. Dopo di lui il nulla?
«Dopo di lui abbiamo avuto o regressioni, come quella di Bersani, o salti in avanti come quello di Renzi, che io ho apprezzato, ma che era talmente avanti da lasciare indietro tutti gli altri. Infatti dopo di lui è arrivato Zingaretti, politicamente assimilabile a Bersani».
A proposito di Renzi: c' è posto per lui nel Pd di domani, malgrado il nuovo segretario sia il suo grande avversario?
«Se si immagina il Pd come "casa dei riformisti a vocazione maggioritaria", e cito Veltroni, deve starci dentro anche Renzi. Come deve starci Calenda e pure Speranza. I grandi partiti sono tali perché hanno una pluralità di forze al loro interno».
A sinistra c' è chi scarica la colpa di tutti questi tormenti su Sergio Mattarella e Mario Draghi: il governo è stato un regalo alla destra.
«Io credo invece che questo governo sia un regalo al Paese. Nei momenti di grande difficoltà, soprattutto in un sistema polverizzato e litigioso come il nostro, l' unità nazionale è un dovere civico».
Matteo Salvini sembra averlo capito.
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«Non so come si comporterà Salvini. Intanto, però, da oppositore della Lega, devo ammettere che sta facendo un' operazione politica straordinaria. Siamo davanti a un possibile punto di svolta e mi stupisce che non venga accolto come tale anche a sinistra».
Cosa cambia per la Lega con Draghi?
«La Lega è un partito pienamente democratico, però con le sue tentazioni no-euro, e non solo, era giudicata inaffidabile dalle cancellerie occidentali. Ma partecipando a un governo di unità nazionale avvia un processo al termine del quale sarà del tutto integrata nel sistema politico europeo e dunque perfettamente legittimata a guidare il Paese, anche agli occhi di quelle cancellerie. Sempre che Salvini voglia raggiungere questo obiettivo, s' intende».
I sondaggi dicono che il Pd, nipote del Pci, rischia di essere sorpassato da Fratelli d' Italia, nipote dell' Msi. Che significato avrebbe per voi, che venite da quella storia?
«I sondaggi sbagliano spesso e spero sbaglino anche stavolta. Se si rivelassero veri, però, risponderei con una frase del compagno Togliatti: "Veniamo da lontano e andiamo lontano". E in questo lungo viaggio ci possono essere momenti in cui le cose vanno male. O molto male».