Andrea Goldstein per "Il Sole 24 Ore"
La lotta di classe, che secondo molti è morta e sepolta in Occidente, alimenta invece il successo della cinematografia in un Paese lontano e tuttora abbastanza sconosciuto come la Corea (del Sud, ovviamente, dato che nel Nord, ultimo baluardo del comunismo, le classi sociali sono state abolite da decenni dalla dinastia di Kim Il-sung).
Dopo l'Oscar di Parasite nel 2020 è la volta di "Squid Game", la serie più seguita su Netflix in 94 Paesi e che si avvia a essere la produzione di maggiore successo nella storia della piattaforma, stracciando "Bridgerton".
Cosa c'è di tanto attraente nel seguire 456 persone tanto disperate da giocarsi la vita per mettere le mani su un premio (certo ingente, circa 33 milioni di euro) che li metta al riparo dalla povertà?
Sono figure al margine della società - immigrati, disertori nordcoreani, divorziati costretti a dormire sul divano della mamma, disoccupati di lungo periodo, vittime della ludopatia online, psicopatici.
L'ambiente in cui si dibattono, popolato da guardie mascherate e minacciose, armate fino ai denti e dal grilletto facile, rimanda alla dittatura che ha governato il paese del Mattino Calmo negli anni 60-80.
Ma "Squid Game" è profondamente locale anche sotto altri aspetti. Ali il pakistano si rivolge con deferenza ai coreani (che chiama sajangnim, capo) e spesso si inchina di fronte a loro, che non perdono occasione per ricordargli la sua situazione di subalternità.
Quando abbassa la guardia, fidandosi di un coreano che lo incoraggia a chiamarlo hyeong (fratellone), Ali ne paga le conseguenze. Un rischio che non intende invece correre la schiva nordcoreana Sae-byeok, che per raggiungere il Sud ha evitato le molteplici trappole cui soccombono molte fuggitive, che si ritrovano in Cina, costrette a sposarsi con la forza, quando non a prostituirsi.
Ci sono poi allusioni al saemaul undong, l'iniziativa dei villaggi modello intrapresa negli anni 70 per accelerare la modernizzazione delle campagne. Altri aspetti sono più facilmente comprensibili anche a coloro, e sono la maggioranza, che ignorano che Hyundai e Samsung siano marchi coreani, e non giapponesi.
In "Squid Game" troviamo anche "persone normali", un medico, un prete e altri che lavorano in finanza, inquiete che un incidente di qualsiasi tipo le possa esporre al rischio di perdere improvvisamente tutto, prolungando indefinitamente un incubo fatto di perdita di lavoro, impossibilità di ripagare prestiti e mutui, isolamento.
È così, lo si è visto anche in "Parasite", che vivono molti in Corea, ed evidentemente anche altrove il pubblico è convinto che pochi possano ritenersi al riparo dalla precarietà, tanto più dopo la grande recessione del Covid-19.
Meno "normali" sono forse i ricchi che, ormai annoiati da tanta opulenza e incapaci di trarre gioia dalle forme accettabili di spendere la propria fortuna, sono invitati a scommettere sugli ultimi concorrenti dei giochi. E così al posto delle corse dei cavalli ci si diverte con la vita degli esseri umani, alzando la posta a ogni decesso.
La capacità dell'industria culturale coreana di rivolgersi a un ceto medio globale è alla base del grande successo della K-wave, che però fino a oggi veicolava generalmente ottimismo e spensierato consumismo.
Come è giusto che sia per il solo Paese che negli ultimi 50 anni è passato dal sottosviluppo alla prosperità. Qualcosa però è cambiato, come testimonia l'epilogo che ben sintetizza la Weltanschauung della serie: vincendo la finale, Gi-hun accede all'agognato benessere ma condanna il suo amico del cuore, Sang-woo.
La vita condanna irrimediabilmente alla bassezza e per ciascuno l'interrogativo circonda la fiducia che riponiamo nella nostra personale capacità di mantenere un minimo di integrità. Di dilemmi morali è impregnata anche un'altra opera attualmente su Netflix, "7 prisioneiros", dove l'iperviolenta realtà distopica (nel secondo episodio di "Squid Game" finisce in crematorio un perdente vivo scambiato per un perdente morto) lascia spazio all'altrettanto cruda, ma ben più terrena, realtà di San Paolo.
Le sordide strade della periferia della metropoli richiamano l'episodio "Hell" della serie coreana, dove l'inferno è la vita "vera" di ogni giorno, in cui non è certo il merito la strada per cambiare il destino che ci è stato assegnato alla nascita. Nel film prodotto da Ramin Bahrani ("The White Tiger") e Fernando Meirelles ("Cidade de Deus") e accolto con simpatia a Venezia, lo sfruttamento prodotto dal neo-liberalismo e dalla globalizzazione assume le forme ancora più estreme della schiavitù, per sfuggire la quale è necessario fare violenza a se stessi e ai propri ideali.
È quello che attende il giovane protagonista, novello Spartaco dei Tropici (in questo caso davvero tristissimi). Ha una causa nobile, difendere gli amici anch'essi schiavi e ottenere giustizia, ma a un certo punto devia e di fronte alla prospettiva del successo personale come redenzione alla sfortuna di essere nato sullo scalino sbagliato della scala sociale si trasforma nell'aguzzino dei suoi ormai ex amici.
Come per Gi-hun, anche per Mateus sfuggire al destino della povertà ha un costo faustiano: in un mondo fatto di giochi a somma nulla, quello di godere di privilegi mentre agli altri rimangono le briciole.
Se "Il gioco del calamaro" non ha le stesse ambizioni di denuncia sociale del film brasiliano, entrambi simboleggiano le contraddizioni della crescita a ogni costo che è stata fino a pochi anni fa l'ambizione dei Paesi emergenti.
In questa parabola c'era poco posto per preoccupazioni quasi post-moderne come la qualità della crescita, l'accesso ai servizi sociali e collettivi, la protezione dell'ambiente o le diseguaglianze.
Ora si parla quasi soltanto di sostenibilità, ma la realtà delle società capitalistiche, ci dicono queste opere e il loro successo, sono le gerarchie di potere che scoraggiano la cooperazione e l'altruismo, la corruzione che sembra permeare tutto, la violenza che apparentemente non aspetta che il momento opportuno per scatenarsi.
Ma altrettanto tangibile è la capacità rigenerativa delle società aperte, viene da dire citando Popper in un contesto in cui il crudele demonio del film carioca, Rodrigo Santoro, è anche il sex symbol di "Love Actually", mentre la borsaiola nordocoreana della serie, Jung Ho-Yeon, è appena diventata uno dei testimonial globali di Vuitton.