Alberto Mattioli per www.lastampa.it
Dopo appena ventotto anni, nemmeno troppi dati i suoi tempi, la Scala ha proposto un nuovo Rigoletto, con tutte le discussioni e contestazioni inevitabili quando si toccano i sempreVerdi. Però lo spettacolo del 1994, già vecchio quand’era nuovo, con il tempo era diventato un brontosauro lirico francamente ridicolo. Mario Martone, titolare della nuova produzione, è partito dall’ovvio: come rendere comprensibile al pubblico di oggi la dirompente novità dell’opera che tanto colpì quello di ieri.
rigoletto di verdi diretto da martone e gamba
In Rigoletto, la rivoluzione di Verdi è soprattutto estetica. Sì, certo, c’è il tema politico, la scabrosità di un soggetto dove il Sovrano è un dissoluto impunito, la violenta critica sociale sull’immunità dei potenti e così via. Ma quello che scandalizzò davvero il censore (ma non il pubblico, circostanza forse da meditare) è un’estetica dove l’alto si mischia al basso, il sublime al ridicolo, la tragedia alla commedia.
È il grottesco come categoria fondamentale per capire Verdi, la sua ricerca di Shakespeare anche fuori da Shakespeare, come appunto in Victor Hugo («Tribolet è creazione degna di Shakespare!!», scrive l’8 maggio 1850 a Piave, con doppio punto esclamativo), la prefazione al Cromwell dello stesso Hugo con la sua teorizzazione della bellezza del brutto: «Una cosa deforme, orribile, odiosa, trasportata con verità e poesia nel regno dell’arte diverrà bella, mirabile, sublime, senza nulla perdere della sua mostruosità”. Esattamente come Rigoletto, inteso come opera, e Rigoletto, inteso come personaggio, «esternamente defforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore».
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Da qui, la scelta di soluzioni che, e Verdi lo sapeva benissimo, avrebbero scioccato gli spettatori: la gobba, il sacco, i sicari e le prostitute, cioè la «ributtante immoralità e oscena trivialità» del soggetto, come da verdetto dell’imperialregio generale di cavalleria e cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa Karl von Gorzkowski che firmò (ma non scrisse) il verdetto della censura veneziana quando l’opera doveva ancora intitolarsi La maledizione. Spiace per i coeurs simples che pensano che a teatro tutto debba essere «di buon gusto» (un gusto che poi di regola coincide con trine e falpalà, quindi proprio buono non direi): Rigoletto è appunto un’opera sul cattivo gusto.
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Ora, è ovvio che, mettendo in scena oggi Rigoletto, chiunque lo faccia deve porsi il problema di restituire questa estetica in un mondo dove la difformità fisica fa compassione, non scandalo, e un sacco in scena non è più uno choc, e rimanda semmai a tragiche immagini delle guerre contemporanee.
Martone legge l’alterità di Rigoletto rispetto al mondo che lo circonda in chiave sociale. Nella solita meravigliosa scena rotante di Margherita Palli si sovrappongono due mondi: sopra, lo scintillante attico del Duca, tutto feste ed escort e cocaina, come da recentissime cronache milanesi; sotto, il rovescio della medaglia, uno slum degradato dove vivono i poveracci. Martone ha citato come fonte d’ispirazione Parasite, pluripremiato film coreano, e va bene. L’aspetto interessante è che l’unica figura che appartiene a entrambi i mondi sia Rigoletto, parassita e canaglia sopra, «pieno d’amore» sotto.
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Funziona? Sì, funziona, perché rispetta assolutamente l’idea verdiana, e solo sostituisce a segni che con il tempo hanno perso il loro significato degli altri immediatamente comprensibili allo spettatore.
Di più. Immersi come siamo nell’estenuante querelle des anciens et des modernes sugli spettacoli «contemporanei», una polemica così ridicolmente provinciale e mediocre da essere possibile soltanto in Italia, a pubblico e critica sfugge sempre la valutazione tecnica di una regia, come se il Konzept, concesso e non dato che esista, sia del tutto indipendente dalla capacità di concretizzarlo. Si può essere o meno d’accordo con Martone sull’impostazione di questo Rigoletto: che sia realizzato benissimo, non c’è dubbio. Delle scene si è detto; le luci di Pasquale Mari sono bellissime; la recitazione sempre appropriata, con mille idee che fanno la differenza fra un vero regista e un arredatore d’interni. Per esempio, Gilda che si sistema furtivamente i capelli e il povero abbigliamento mentre il Duca le dichiara il suo amore; o la ragazza-oggetto che le si avvicina durante «Caro nome», come a dirle: guarda che tu sei soltanto la prossima della lista.
Dove lo spettacolo non funziona più è nel finale, quando dal mondo di sotto i sottoproletari salgono nell’empireo dorato dei divani bianchi e fanno una strage. Non funziona perché il colpo di scena non è preparato in precedenza e, banalmente, non c’è il tempo per «spiegarlo», sicché il pubblico resta perplesso. E non funziona perché Verdi condivide con Shakespeare anche la visione pessimista della storia e dell’uomo. No, al mondo non c’è giustizia: le Gilde passano, i Duchi restano.
Alla direzione scenica si salda con insolita coerenza quella musicale, notevolissima, del giovin direttore Michele Gamba, fin da un Preludio tutto legato che ti stampa nella mente il tema della maledizione. Gli abituali effettacci sono espunti a favore degli effetti, e quelli previsti da Verdi, a iniziare dal rispetto delle sue indicazioni agogiche. Ne nasce un contrasto, teatralmente efficacissimo, fra i cantabili liricissimi e dilatati, e lo stacco fremente ma non fracassone di cabalette e concertati. Direzione meditatissima, calibrata e cesellata ma non algida; e sostenuta benissimo da Orchestra e Coro in stato di grazia (non cale un lieve incidente all’attacco di «Zitti, zitti», alla recita del 30 giugno).
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Però l’aspetto forse più interessante della prova di Gamba è la sua concertazione. Prendete il caso di Nadine Sierra, soprano americano di grandi meriti vocalistici, già qui nel Rigoletto del ’16. All’epoca, fu una Gilda benissimo cantata ma esteriore, didascalica, molto da Met: stavolta ha lavorato su ogni sillaba creando uno dei personaggi più toccanti e «veri» che io abbia mai ascoltato.
Gamba è stato anche deciso a far eseguire l’opera com’è scritta, che non è il «Rigoletto senza acuti» di cui parlano i verdiani della domenica ma, semplicemente, il Rigoletto di Verdi. Sono sopravvissuti alla santa epurazione la puntatura alla fine della cabaletta della vendetta, che può anche starci, e la cadenza di «La donna è mobile», che invece starci non deve perché è un’oscenità musicale e drammaturgica.
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Con il crescere dell’età e dell’autorevolezza, Gamba riuscirà a farne piazza pulita. Intanto va sottolineato come la Scala abbia finalmente un «suo» talento, e che talento, che sarebbe bene valorizzare, invece di continuare con insensata pervicacia a importare pessimi direttori stranieri che fanno strame del repertorio italiano.
Capitolo cast. Della Sierra si è detto: magnifica. Molto bene anche Amartuvshin Enkhbat, il baritono mongolo che approda finalmente alla Scala dopo anni di carriera italiana. La voce è sempre bella e tanta; cresce, ogni volta di più, anche la consapevolezza dell’interprete, specie se, come in questo caso, direttore e regista lo stimolano. Enkhbat è già un notevole Rigoletto e ha tutte le carte in regola per diventare un Rigoletto storico.
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A parte la sciagurata cadenza, in sé però ben eseguita, Piero Pretti canta benissimo il Duca e anche con diverse finezze di fraseggio. Marina Viotti è una solida Maddalena in scooter. Va poi sottolineata la bravura dei bassi: Gianluca Buratto come Sparafucile di grande voce e Fabrizio Beggi come eccezionale Monterone. Verdi ruppe le scatole alla Fenice perché riteneva che quella di Monterone fosse una parte importantissima; eseguita così, si capisce anche perché. Si replica fino a lunedì 11. Se trovate un posto, andateci: è così raro vedere il Rigoletto di Verdi…
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