Quirino Conti per Dagospia
Armani non ci sta. Armani si tira fuori. Anche in questa stagione, come ormai semestralmente. Quasi che la Moda fosse divenuta una gara: un gioco dal quale uscire quando qualcuno bara. Ma qui è difficile individuare chi può aver barato; dal momento che da più di un ventennio, ormai, il mestiere al quale fa riferimento il sommo Armani – e che lo ha reso una celebrità in tutto il mondo – è ufficialmente divenuto un’altra cosa.
All’origine fu Prada a infrangere le regole, avendo sciolto finalmente gli abiti dal loro “grazioso” servizio di utilità formale. Ma soprattutto, prima di lei, Parigi con decine di geniali truffaldini. Puntando a un nuovo genere di grazia non più accattivante come d’obbligo era stata nelle mani dei couturier. A seguire spuntò minaccioso all’orizzonte l’uragano Alessandro Michele.
Che sia un intellettuale deflagrante è fuori dubbio; e che la nuova Moda questo voglia essere per sopravvivere non è neppure in discussione. Dunque, rotti gli argini, Miuccia Prada legittimò innumerevoli epigoni. Ovunque. Fino a quando Gucci non fece letteralmente saltare il tavolo (e, a più di qualcuno, i nervi). Come gli artisti a Parigi nei primi anni del Novecento. E questo è ormai un dato ineludibile che riguarda gli studiosi e la grande storia dello Stile. Inutile tornarci sopra.
Anche i buoni e saggi post-impressionisti non ci stavano al toro di Picasso o all’orinatoio di Duchamp. Ma com’è dimostrato dal Tempo, il futuro apparteneva a loro. Anche se Greta Garbo preferiva un bel Renoir sul caminetto di casa.
Commentare dunque le modalità della presentazione Gucci è persino pleonastico. Tutta la creatività del mondo parla già quel linguaggio da almeno un secolo. “Ma la Moda deve vendere!” si gridava battendo i pugni sommersi dal proprio vecchiume. E come! Gucci è la testimonianza che l’intelligenza e il senso del proprio tempo possono e sanno vendere.
Ma ora occupiamoci di qualcosa di nuovo – o meglio di straordinario – avvenuto sulla pedana di Dolce & Gabbana. E se la sfrontata ironia dei due autori non ne avesse moderato l’effetto, quel che si è visto oggi è stato davvero la più grande e commovente metafora di questi ultimi anni.
MILANO FASHION WEEEK gucci Alessandro Michele
Da una parete gloriosa di angeli e cirri come negli stucchi dei Serpotta, uno sciame di cherubini-droni ha iniziato lo show avanzando nell’aria con un’uscita di borse da togliere il respiro. In un misticismo che sostituiva il tecnologico a quelle divine creature alate. Ma con tenerezza e dolce nostalgia; dopo che un polifonico canto monastico aveva fatto precipitare le resistenze di tutti in una disponibilità più concentrata verso il Mistero.
E se Prada ha voluto difendere la “fragilità” con bastioni architettonici, mentre Gucci ne propone un’altra, ricomposta e frammista, Dolce e Gabbana confidano nell’estasi che può suscitare la Bellezza. Grandi, grandissimi: una terna di geniali interpreti del Tempo che, grazie al cielo, sanno far saltare le regole.
Quando il talento di Armani fece esplodere quelle di allora, anche allora ci fu chi mugugnò.
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