Natalia Aspesi per “la Repubblica”
Cosa legava negli anni luminosi del ritorno alla pace gli Studios di Hollywood a un distributore di benzina in Hollywood Boulevard? Che cosa condividevano le dive e i divi più famosi e i giovani e aitanti benzinai appena ritornati dalla guerra? Il sesso, ovvio, ed è da questo ricordo che parte la miniserie Hollywood, sette puntate di una certa vivacità sessuale che, con la scusa di raccontarci come la città dei sogni avrebbe potuto allora rivoluzionare il mondo (ma non lo fece), spoglia e intreccia allegramente i corpi nudi dei suoi personaggi senza preoccuparsi di classificazioni noiose, tipo etero o omo, per amore o per denaro, o semplicemente perché (allora?) accettare le molestie era un passaporto verso la celebrità.
Brividi su brividi certamente da parte degli incolpevoli reclusi che da domani potranno vederlo su Netflix, massimo conforto all’attuale eccesso di castità per chi ancora pensa a quelle cose lì. L’autore è Ryan Murphy, 55 anni, un marito e due figli, già adorato dagli spettatori di ogni appartenenza LGBTQIA più i tradizionalisti, per le celebri serie Pose, Glee e altre in bilico tra musical e transessualità.
Hollywood racconta la storia di un gruppo di giovani che arrivando dall’America profonda sognano di entrare a Tinseltown, la città delle favole, e diventare ricchi e famosi: come i divi del momento, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, come Ava Gardner e Burt Lancaster. La fortuna, per quegli intrepidi, almeno per i maschi, non parte dai cancelli degli Studios dove ogni mattina una folla di sconosciuti aspetta di essere scelto come comparsa e poi chissà, ma da quella stazione di servizio dove si fermano i macchinoni dei potenti per fare benzina e pronunciare la parola chiave, “Dreamland”, e subito un bel ragazzo salirà accanto alla matura signora e soprattutto a signori di ogni età.
E questo è storico, c’è un documentario recente tratto dalle memorie di Scotty Bowers (morto l’ottobre scorso a 96 anni) a suo tempo bellissimo ex marine che intraprese la fruttuosa carriera come benzinaio in Hollywood Boulevard, contrattando le sue cortesie con ospiti che mai avrebbero potuto rivelare la loro omosessualità, in California un reato, per l’industria del cinema la morte: da Gore Vidal a Cole Porter, da Edgar Hoover a Alfred Kinsey, a “Wally e Eddie” i duchi di Windsor sempre in coppia.
Scotty Bowers con Valerie Vernon e Constance Dowling randoplh scott
Più naturalmente i grandi del cinema, George Cukor e le sue feste scatenate, certi uomini fascinosissimi tipo Tyrone Power e purtroppo il nostro adorato Cary Grant, i cui baci a Ingrid Bergman ci avevano tramortito (Notorius), in realtà per anni compagno di un altro maschio maschilissimo, Randolph Scott, e costretto a sposarsi (cinque volte); come del resto, ma per fortuna sua una sola volta con la sua segretaria lesbica, chi sarebbe diventato una clandestina icona omo, Rock Hudson, che solo morendo di Aids nel 1985 si rivelò. Lo ritroviamo un po’ tontolone, unico nome reale, tra i giovani benzinai aspiranti alla fama della miniserie, tutti legati a un progetto, raccontare la storia (vera), di Peg Entwistle, una biondina inglese che non riuscendo a far carriera a 24 anni si suicidò gettandosi dalla H della enorme insegna “Hollywood”.
Natalia Aspesi scotty bowers 6
Ma come potevano i grandi Studios finanziare un film scritto da un nero omosessuale, diretto da un mezzo filippino che pare bianco e vorrebbe come protagonista la bellissima ragazza che vive criminalmente con lui, in quanto afroamericana, ma allora si diceva nigger? Un film così allora non poteva essere fatto, nessun cinema del Sud l’avrebbe proiettato, ci sarebbero stati tumulti, e pure qualche linciaggio. Dal 1934 vigeva per il cinema il codice Hays, che oltre a impedire letti matrimoniali nei film anche per coppie coniugate, proibiva accenni a “perversioni” come l’omosessualità e l’integrazione razziale. I neri potevano apparire solo come servitù anche un po’ ridicola e le potentissime, ricchissime case di produzione ubbidivano.
Murphy mostra altri razzismi accaduti, come quando la cinoamericana Anna May Wong, dopo un provino commovente, fu sostituita da Luisa Rainer, una tedesca truccata da cinese nel lacrimoso La buona terra. O ricorda Hattie McDaniel, la nera cicciona Mami, cameriera di Rossella in Via col vento, la prima persona di colore a vincere un Oscar (1939) come attrice non protagonista, a cui alla premiazione fu impedito di sedersi con gli altri vincitori. Quante volte abbiamo visto quel film arrivato da noi nel dopoguerra? L’abbiamo sempre adorato, lo rivedremmo anche adesso, non accorgendoci mai del suo razzismo, Mami che parla come una deficiente almeno nel doppiaggio italiano, i neri cattivi che vogliono far male alla povera Rossella, il Ku Klux Klan buono che la salva.
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Ma Murphy e i suoi collaboratori sono davvero geniali, perché se denunciano l’ipocrisia di quella Hollywood (che era anche di tutta l’America), poi si inventano una serie di happy ending allora obbligatori per melensaggine, rendendoli del massimo ardimento: signore anziane con le loro pessime pettinature di legno che si prendono il potere, potenti produttori razzisti che vogliono darsi ai diritti civili, omosessuali clandestini che si fidanzano apertamente con i loro innamorati. Ma non si poteva esagerare, e infatti il film trasgressivo, che finalmente gli ex benzinai hanno potuto fare, non finisce col suicidio della protagonista, ma con gli innamorati che si baciano, in dissolvenza.
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