1. E' MORTO SAMUEL I. NEWHOUSE, ULTIMO VOLTO DI UN'EPOCA EDITORIALE ORMAI SVANITA
Mario Platero per www.ilsole24ore.com
Sul fronte giornalistico-editoriale si è chiusa nel fine settimana una vera e propria pagina di storia americana. E' morto ieri all'eta' di 89 anni Samuel I. Newhouse Jr, il proprietario del gruppo editoriale Advance Publications e di Conde' Nast, che pubblica alcune fra le riviste più note dell'editoria americana e mondiale, tra cui Vogue, Vanity Fair e The New Yorker.
Sotto la sua direzione l'impero di Conde' Nast e' stato rilanciato acquisendo quell'aura di glamour che caratterizza le sue pubblicazioni: a Newhouse si devono infatti le assunzioni di Tina Brown a Vanity Fair, di Diana Vreeland e Anna Wintour a Vogue e di David Remnick al New Yorker. Ciascuno di questi direttori, che da Newhouse hanno avuto fiducia e mezzi economici, ha contribuito ad affermare queste riviste come una voce influente a livello mondiale nel contesto di moda, cultura e politica.
Con la morte di Newhouse si chiude un'epoca. L'avvento di internet sta cambiando profondamente anche questi mostri sacri del ‘glossy magazine' americano, e ad oggi è difficile prevederne il futuro, sia il loro che quello dell'intero settore. La scomparsa del proprietario di Conde' Nast ha intanto già avuto una prima conseguenza, anche se da tempo annunciata: Graydon Carter, il direttore di Vanity fair, ha annunciato ieri le sue dimissioni. E c'è da credere ce anche questa icona dei magazine di moda da oggi non sarà più' la stessa.
2. IL RICORDO DI JONATHAN NEWHOUSE
È un giorno triste per tutti i lettori di questa rivista e lo staff dell’azienda che la pubblica, Condé Nast. Si Newhouse, l’uomo che ha dato vita all’azienda dirigendola per oltre 50 anni si è spento a New York in seguito a una lunga malattia.
Condé Nast prese il nome dal fondatore che avviò il gruppo editoriale all’inizio del XX secolo ma potrebbe benissimo essere ribattezzata Si Newhouse Company. Questi aveva debuttato aprendo una piccola impresa che produceva alcune riviste – quattro negli Stati Uniti, due in Gran Bretagna e due in Francia – per poi espanderla enormemente raggiungendo nuove vette di eccellenza e autorevolezza nel settore editoriale.
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I suoi successi e le sue conquiste sono troppo numerose da essere elencate nella loro totalità. Ha rinvigorito Vogue erigendolo a leader mondiale nel settore nonché a rivista e brand più influente al mondo. Ha dato nuova vita a Vanity Fair trasformandola in un potente fenomeno editoriale. Ha risollevato le sorti di un settimanale in declino quale The New Yorker.
Ha acquistato Gentlemen’s Quarterly, (GQ) per poi renderlo un titolo leader del mercato. Ha lanciato o acquistato riviste di primo piano in settori quali salute e benessere, viaggi, architettura, bellezza e sport. Ed ha ampliato le attività editoriali del gruppo a livello mondiale operando il salto da sei a trenta paesi, con oltre 140 pubblicazioni e 100 siti web.
Con l’avanzata dei media digitali, verso la fine della sua carriera concentrò la sua attenzione anche su questi canali di comunicazione reinventando il brand delle riviste in formato digitale mantenendo però, al contempo, i più elevati standard di qualità editoriale.
Si, come erano soliti chiamarlo tutti, si è dedicato incessantemente e risolutamente al fine di produrre il miglior prodotto giornalistico. Ed è proprio la sua visione, abbinata a una spiccata sensibilità imprenditoriale, alla pazienza e al coraggio, che ha posizionato Condé Nast in un ruolo di leadership nel settore guadagnandosi l’ammirazione di scrittori, editori e fotografi come anche la gratitudine di migliaia di lettori nonostante fossero all’oscuro di chi fosse il deus ex machina della rivista patinata che avevano tra le mani.
Ho avuto la gioia e l’onore di lavorare per e con lui per 36 anni. Dal momento che portiamo lo stesso cognome, sono stati in molti a dare per scontato che fosse mio padre o mio zio. Era in verità un cugino di primo grado molto più grande di me e, tuttavia, il nostro è stato più un rapporto di zio e nipote, mentore e protégé e, infine, quello di due amici devoti. Mi ha insegnato quasi tutto ciò che conosco in fatto di business e molto di ciò che so sulla vita e nutro per lui un affetto profondo.
Un uomo riservato, delicato nei modi ma col senso dell’ironia, inclusa la capacità di ridere di sé. Ha sempre intrattenuto con tutti un rapporto basato sulla lealtà. Era raro vederlo perdere la pazienza o alzare la voce. Trattava tutti – dalle persone ai vertici a quelle di grado meno elevato – con la stessa cortesia e gentilezza. Prestava attenzione.
Era, ai tempi in cui il termine e il concetto di mindfulness non erano ancora di moda, una persona consapevole e presente. Dotato di un brillante senso estetico, specialmente in campo visivo, Si divenne un rinomato collezionista. E, come se avesse installata al suo interno una sua personale app Google maps, possedeva un prodigioso senso dello spazio e dell’orientamento; anche navigando una città sconosciuta in un labirinto di uffici, non si perdeva mai.
Per lo staff che vive e lavora in Europa, il momento clou dell’anno combaciava con una calda settimana di maggio quando Si faceva visita agli uffici dell’Europa occidentale, iniziando il lunedì con Parigi, per poi passare a Monaco, Milano, Madrid e finire con Londra. Una settimana intensa durante la quale ero al suo fianco da mattina a sera.
Si incontrava i dirigenti e i direttori delle varie testate intrattenendo discussioni, dibattiti, facendo supposizioni e scambiando informazioni. Si presentava nelle varie sedi vestito con un completo cadente e sgualcito dall’aspetto più consono a un professore universitario che a un CEO. Non menzionava mai budget, men che meno esibiva fogli di calcolo e dati statistici. Ma la sua mente acuta osservava tutto e le sue domande e i commenti continui testavano e stimolavano chi lo ascoltava.
Potrei – ma non ho intenzione di farlo – scrivere un libro su Si Newhouse e i suoi successi. Vorrei, tuttavia, condividere un ricordo. All’inizio del 1981, stavamo pranzando presso il suo ufficio (ero un tirocinante 28enne allora) quando mi raccontò di come Vanity Fair fosse stato pubblicato da Condé Nast dal 1914 al 1936 per poi chiudere i battenti durante gli anni più bui della Grande Depressione.
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“È sempre stato il sogno di questa azienda reintrodurre Vanity Fair” – mi confidò. Sogno – è proprio quella la parola che pronunciò. Funzionava così ai quei tempi! Prima ancora che prendesse forma il piano aziendale, la strategia di marketing, la missione d’intenti, c’era…un sogno. E Si Newhouse era un sognatore. Un sognatore che ha trasformato quei sogni in realtà.
Oggi, quando ai giovani viene chiesto cosa desiderano fare della propria vita, tendono di frequente a rispondere “Voglio cambiare il mondo.” I giovani del passato non sembravano dimostrare la stessa sicurezza di sé e ambizione. Si Newhouse non era cresciuto volendo o aspettandosi di cambiare il mondo. Eppure lo fece. E la prova risiede proprio nelle parole che state leggendo ora.
Noi di Condé Nast, che lavoriamo con orgoglio all’interno dell’organizzazione che ha costruito, onoreremo la sua memoria portando avanti le conquiste che ha conseguito dedicandovi la sua vita: creare il meglio per voi.
Jonathan Newhouse
Londra
01/10/2017