Giuseppe Bottero per "La Stampa"
Barack Obama scende in campo contro il web a due velocità e i colossi delle telecomunicazioni affondano a Wall Street. Il presidente degli Stati Uniti, dopo mesi di dubbi, prende posizione nel dibattito sulla neutralità della rete: concetto parecchio alto su cui duellano guru e grandi gruppi di produzione, ma che avrebbe ripercussioni nella vita di tutti.
È giusto che i siti che pagano tariffe più alte abbiano a disposizione una corsia preferenziale per far navigare più velocemente i loro utenti? Parte dell’industria a stelle e strisce pensa di sì, i duri e puri della Silicon Valley (Facebook e Google in testa) sono fermamente contrari. Eppure la Fcc - ovvero l’organismo che controlla la comunicazione Usa - nel maggio scorso ha aperto all’ipotesi, proponendo una consultazione pubblica a cui hanno risposto 3,7 milioni di americani. Da ieri, al fronte del no, s’è aggiunta la voce del presidente.
Per i fornitori di servizi Comcast - il più grande operatore via cavo al mondo, che in passato non ha lesinato donazioni ai democratici - e Time Warner in Borsa è stata una giornata nerissima. Sarebbero loro, infatti, a trarre il vantaggio maggiore dalle corsie preferenziali, visto che potrebbero vendere «autostrade di byte» a giganti del calibro di Disney, Netflix e YouTube, che hanno la necessità di trasmettere velocemente contenuti molto pesanti.
I portali si oppongono e, nei mesi scorsi, sono volate accuse a colpi di banner pubblicitari. Ieri sono colati a picco anche i titoli degli operatori delle Tlc, a partire da Verizon. Secondo i vertici del primo fornitore di banda larga Usa l’intervento a gamba tesa della Casa Bianca è «dannoso per l’economia e limita la concorrenza». At&t minaccia invece un’azione legale se il divieto di pagamento chiesto da Obama dovesse essere attuato. «Siamo sbalorditi - spiegava ieri il numero uno della National Cable&Telecommunications Michael Powell -. L’intervento del governo rischia di portare risultati devastanti».
Gli attivisti, invece, brindano al tackle del presidente. «Agli americani è stato promesso, e lo meritano, che internet sia privo di strade a pagamento, corsie preferenziali e censure, aziendali o governative», dice Todd O’Boyle, responsabile dell’organizzazione «Common Cause’s Media and Democracy Reform Initiative». La posta in gioco è altissima, e a rischiare, oltre ai consumatori, sarebbero soprattutto le start-up: se una società non potesse permettersi di pagare la linea veloce potrebbe perdere clienti spingendoli a rivolgersi ad altre aziende e rischiando la chiusura.
Alle battaglie che si combattono attorno al web, ieri, s’è aggiunta quella relativa ai rimborsi dopo la catena di cyber-attacchi che hanno colpito i grandi magazzini statunitensi, da Home Depot a Target. Operazioni massicce, che hanno portato nelle mani degli hacker i dati di centinaia di migliaia di carte di credito. Ora, il braccio di ferro tra le banche e i negozianti: chi paga i danni? Il fronte degli istituti , per una volta, è compatto: d’altra parte le cifre in ballo superano i 160 milioni di dollari. Mentre si dibatteva, però, i pirati colpivano ancora e le Poste americane, subivano il furto di 500 mila dati. Violati, scrive il «Wall Street Journal», nomi, indirizzi e numeri della Social Security. I maggiori indiziati sarebbero i cinesi.