QUIRINO CONTI PER DAGOSPIA
Che la Moda in un sol boccone abbia ingurgitato tutta la qualità possibile è ormai fuori di qualsiasi dubbio. E c’è ben poco in giro che valga tutto quello di meraviglioso che lo Stile ha rastrellato in un cinquantennio di invenzioni tra Milano, Londra e Parigi.
Vogliamo forse metterlo a confronto con i porno-filmini-lamento-eterno che fortunatamente non si vedono che ai festival, o con le macroscopiche baracconate (letteralmente) degli autocrati autoincoronatisi archistar, o con le autoerotiche confessioni piagnucolose delle miriadi di pagine psichiatriche accumulate tra detersivi e pelati negli ingenerosi reparti libri dei supermercati? Con una pietra tombale su quanto abusivamente viene spacciato per arte contemporanea.
La Moda, come una Statua della Libertà, svetta coltissima ormai su tutto e ne è purtroppo una riprova anche la sventata convivenza della sua milionaria pubblicità con queste ultime, dolorosissime pagine di guerra. Certo, il mercato non può fermarsi: ma basterebbe forse un impaginato un po’ più riflessivo e meno avido; così da non accumulare indecentemente martirologi e vittime con gli eterni spasimi di piacere ipertricotico (DSQUARED2 e compagnia villosa) per una goccia in più dell’ultima essenza spacciata dal mercato come imprescindibile e orgasmatica.
Certo è che negli ultimi decenni la Moda ha messo in campo una serie – limitata e preziosa – di esperti come nessun’altra delle cosiddette arti ha più a disposizione. Nomi illustri basati sulla tenacia nel voler capire e quindi sulla competenza per raccontare; anche se ora, nella cosiddetta crisi editoriale, strattonati da ogni parte, eppure resistenti a qualsiasi smottamento. Comunque nomi impronunciabili senza il rischio di incorrere, per qualsiasi disattenzione gerarchica, in una terribile pioggia di fuoco.
Perché, si sa, ci fu addirittura chi, per parlare di Moda, veniva da “l’amico degli animali” assieme ad Andalù, e chi scriveva per il fascino pruriginoso del suo gonnellino da tennista. E persino chi perché “maritata Cecioni”.
Eppure la Moda resiste, anche se non più indossata. Giacché, per un materialismo post-marxista fuori tempo, tutto si è ridotto ormai a consunti piumini, jeans decorticati, leggins spartinatiche e poco altro, sempre e ovunque. E neppure nel fatidico centro-sprecone la si incontra più, la Moda.
Ma così è come per le cose più preziose: la vita scorre brutalmente, talvolta, ma lo Stile permane come memento; e quando purtroppo qualcuno, a causa di una folata più crudele, si stacca da questo albero di perfezione, la sua assenza si percepisce enorme come quella di una sola tessera ma di lapislazzuli caduta da un Cristo Pantocrator bizantino.
La Moda ci rassicura che siamo dèi, e profeti e profetesse di questa certezza hanno speso un’intera vita per renderlo probabile. Ma guai a parlarne con l’insensibile Direttore: per lui la Moda è sempre questione di donnette o, come diceva Proust, “Sentivo che le cose stavano per mettersi male e ripresi precipitosamente a parlare di vestiti”. E il suo inviato, poco più di un opulento salvadanaio colmo di prelibata pubblicità. Che ce ne sia stato uno, uno solo, a sospettare di questa perfezione senza magari neppure amarla sarebbe già davvero troppo.
Si intitolano vie ed edifici a chiunque. E a Milano nemmeno un vicolo o un sottoscala a chi ha reso più civili agli occhi del mondo la città e il Paese. Più civili e più ricchi. Perché è bene si sappia che, nonostante blasfemi impaginati da brivido, è la Moda – grazie alla pubblicità – a far uscire ancora in edicola qualche decente pagina cartacea. Seppure con massacri, carneficine ed eleganti finezze di stagione.