Francesca D'Angelo per “la Stampa” - Estratti
«Sono l'esempio vivente di quello che non bisogna fare». Maurizio De Giovanni lo ripete sempre, quando va nelle scuole: se è diventato scrittore a 50 anni, non è stato solo perché, con la morte del padre, ha dovuto aiutare la famiglia e portare la pagnotta a casa.
«Avevo anche paura», ammette: paura di sbagliare, di non essere «all'altezza degli scrittori, che ai miei occhi da lettore incallito erano dei mostri sacri», tanto che la prima partecipazione a un concorso fu per scherzo. Ora però quel coraggio De Giovanni non se lo nega più. Sforna un paio di libri l'anno, «a volte persino tre», si divide tra scrittura e teatro e, dal 18 dicembre, ha persino accettato di diventare conduttore, presentando insieme a Greta Mauro La biblioteca delle emozioni, il nuovo programma pomeridiano di Rai3 dedicato ai libri.
Accarezzava da tempo l'idea di diventare conduttore?
«Lo so, vorrebbe chiedermi dove ho preso questa faccia tosta, e ha ragione a dire così… tra l'altro non amo stare al centro dell'attenzione: pensi che da piccolo detestavo il giorno del mio compleanno proprio perché tutto ruotava attorno a me. Questo strano mestiere dello scrittore, subentrato nella parte terminale della mia vita, è come un beffardo scherzo del destino perché mi colloca sotto i riflettori sempre più spesso. Nonostante me».
Eppure aveva appena dichiarato: «Sono stufo di essere chiamato prezzemolino, non prenderò più parte agli incontri pubblici che esulano dal mio lavoro».
«Non aspiravo alla conduzione né mi sarei mai immaginato che qualcuno fosse così folle da propormela. Se ho accettato è solo perché, da presidente della Fondazione Premio Napoli, sto portando avanti un lavoro capillare di promozione della lettura. I libri sono vitali: se non leggi, non immagini. La fantasia è una capacità di visione sul mondo, lo rende migliore ed è alla base di qualsiasi invenzione. Con gli altri mezzi - tv, social - non immagini nulla: vedi».
Perché fare un programma nuovo quando c'era già «Un pugno di libri»?
«Quelle sono valutazioni della Rai. Di certo, però, avrei rifiutato: non sarei stato all'altezza del programma. Non reggo il paragone con Neri Marcorè, che peraltro ammiro enormemente, né con Geppi Cucciari. Qui io funziono perché al centro ci sono i libri ma soprattutto i sentimenti: in ogni puntata mettiamo un'emozione sul tavolo e vediamo come i ragazzi l'analizzano».
È la tanto invocata educazione ai sentimenti?
«Non abbiamo l'ambizione di educare nessuno, però il programma può essere uno strumento utile per impiantare un discorso di formazione. Da noi i ragazzi parlano, si confrontano, guardandosi negli occhi. Non è poco. Alla base di questa generale analfabetizzazione affettiva, che sta generando delitti e femminicidi, c'è la comunicazione sintetica dei social dove parli senza guardarti in faccia. È un linguaggio solitario, che finisce per creare distorsioni anche gravi».
Da giallista, quanto la turba che la realtà possa superare, e di molto, la fantasia?
«La scrittura è guidata dalla logica. La vita no. Se raccontassi di due figlie che, per mesi, piangono la madre scomparsa in tv mentre hanno il suo cadavere nel freezer, nessuno mi pubblicherebbe. Ma non perché sia una storia violenta: perché è illogica, alla stregua di una tragica farsa.La realtà spesso non segue la logica e certe emozioni vengono alimentate nel silenzio e nel buio».
Questo non la terrorizza?
«Certo che sì. Come diceva anche Donato Carrisi, noi giallisti scriviamo di omicidi perché ne abbiamo più paura di tutti. Sa quanti crimini sono ancora irrisolti? Tantissimi. Il delitto perfetto esiste eccome, e il serial killer può tranquillamente essere seduto accanto a te al cinema, o in metropolitana, o in fila alla Posta. È lì, che ascolta la musica nelle cuffie e mangia la cicca, mentre nella sua mente ripensa all'ultima vittima».
Le spiace aver scoperto solo a 50 anni la sua vena artistica?
«È uno dei miei maggiori rimpianti. Avrei potuto dare molto prima a mamma la soddisfazione di leggere i miei libri. Ma fu colpa mia, avevo paura di propormi».
(…) I suoi prossimi progetti?
«Dopo Ricciardi, i Bastardi e Mina, anche Sara diventerà una serie tv, ma per Netflix. Hanno appena finito di girare le riprese. Sto poi pensando a un paio di serie tv, ma sganciate dai miei romanzi. È appena uscito il giallo Soledad, ho debuttato con la commedia La scatola dei biscotti al teatro stabile di Napoli, dopodiché devo tornare a scrivere i Bastardi di Pizzofalcone».
Il blocco dello scrittore, questo sconosciuto?
«So' napoletano. Mi basta uscire per strada: è una città che ribolle di storie. Quello che mi manca è solo il tempo per scriver
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