Estratto da “Mutandine di Chiffon. Memorie retribuite”, di Carlo Fruttero (ed. Mondadori) pubblicato da La Stampa
Tanto vale togliersi subito il pensiero: Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l'unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esistono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tolstoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile.
Gli esclusi lo vorrebbero morto, uno così. Come si permette, chi si crede di essere?
Li capisco benissimo, sia chiaro. Di Citati mi considero oggi un caro amico, ma anche con me, dopo tanti anni, se gli viene in mano il coltello a serramanico non esita a far scattare la lama. Mai alle spalle, però, sempre faccia a faccia, che è forse anche più insultante. Il critico, il letterato, può dunque apparire e magari saltuariamente essere odioso; ma l'uomo non è cattivo, tutt' altro.
Io lo conobbi nel 1958 o '59 in casa editrice Einaudi, dov' era passato a salutare i suoi compagni di scuola (Normale di Pisa) Ponchiroli e Bollati. Passò anche a salutare Calvino, che ammirava e di cui era amico, ma Italo aveva appena lasciato l'ufficio e Citati restò lì al mio tavolo qualche minuto a parlare di fantascienza, le antologie da me curate essendogli molto piaciute. Gentile, sembrava.
Molti anni dopo Gianni Merlini e io, stufi della troppo umida Versilia, cercavamo casa più a sud, in Maremma, e Citati, grande amico di Gianni, ci ospitò per due o tre notti a casa sua.
La sua casa era una vera e propria tenuta, con un prato ampissimo, immensi alberi ombrosi, viali infilati sotto fitti rami e cespugli, una cappelletta tra gli ulivi, filari di alberi da frutta. L'edificio, benché costruito negli anni Trenta, restava felicemente fedele a canoni di sobria rusticità toscana. Niente civetterie anticheggianti, solida, comoda naturalezza in quei terrazzi, loggette, salette e saloni e alti finestroni.
La Castellaccia, si chiamava la frazione, dotata di una botteguccia di alimentari e attorno un minuscolo borgo. (...) Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre.
Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la quarta gallina, l'arrotino laggiù, la Stella un po' più in basso, e così via fino alla perfezione.
La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell'urlio continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.
Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un illustre e potente personaggio dell'establishment culturale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. (...)
Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d'altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smoking.
Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale. Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po' sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A palazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l'elastico, che su una bella camicia bianca... Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.
Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, superiore alle pompe del mondo? Chissà (c'era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega...). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo.
Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti).
Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati.
Poteva succedere che si presentasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimili. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzontali verdi e beige, terribile. «Ma sei impazzito?» protestavo io. Sulle cosette esteriori si lasciava dire, sorrideva indulgente, filosofico. «Be', che c'è di male, l'ho trovata su una bancarella a Arcidosso».
Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po' di quel festival. Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti.
(...) Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi appassionati, gli "scopritori", già avevano smesso di andarci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D'altra parte il pubblico doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell'influenza aviaria.
«E se non troviamo da dormire?» dicevo io. Da autentico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spoleto non c'era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita.
Lui sparì, taciturno e grintoso, e quando tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annunciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di salita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarcene a dormire dopo lo spettacolo.
«Quale spettacolo?», «Così fan tutte, nel famoso teatrino del festival. E anzi, alzatevi e andiamo», «Ma i biglietti? ». Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell'ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria.
«Sono Pietro Citati» disse duro alla ragazza. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiarissimo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi al pernacchio. Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le sedie.
Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le accecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. Entrammo in non so quante case, attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo).
Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per Ti trovo un po' pallida. Il giorno della partenza andammo a sederci nel grande caffè sulla piazza che digrada appena verso il Duomo.
File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolcemente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate. «È bello - dissi a Citati -, avevi ragione». «Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero.
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